L'intervista

Chiara Ferragni, i figli e i social: dov'è l'errore?

L'imprenditrice digitale è finita nuovamente nell'occhio del ciclone dopo una frase pronunciata dalla tata al primogenito – Ne parliamo con il professor Luca Botturi della SUPSI
Marcello Pelizzari
19.10.2022 10:00

«Ci metti un minuto Leo, fai un sorriso e poi puoi continuare a disegnare». La frase, beh, è famosissima. Appartiene alla tata di Leone, il primogenito di Chiara Ferragni e Fedez, ed è finita, per sbaglio, in una storia Instagram pubblicata dall’imprenditrice digitale. Una frase, manco a dirlo, che riapre il dibattito: quanto, e in che modo, lo stesso Leone e Vittoria sono «sfruttati» dai genitori per i propri contenuti social? La coppia, da un lato, si è sempre difesa affermando che la sovraesposizione dei figli rappresenta uno stratagemma per allontanare i cosiddetti paparazzi. Dall’altro, c’è chi considera queste pubblicazioni una vera e propria strategia di marketing. Una mercificazione della famiglia, insomma, per aumentare il seguito e, soprattutto, fare soldi. 

Come stanno le cose? È giusto, oppure no, includere i nostri bimbi in ciò che facciamo online? Abbiamo girato questa e molte altre domande a Luca Botturi, professore in media in educazione presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.

Professor Botturi, se le diciamo che i Ferragnez stanno mercificando i figli sbagliamo oppure no?
«C’è un aspetto di mercificazione, sì. Penso che un punto discriminante sia proprio il lavoro dei genitori. Se il mestiere di una persona è quello di commerciare, vendere la propria immagine (il che non è un male in assoluto, si badi) e dentro questa immagine uno inserisce anche i figli, anche loro diventano parte del prodotto. Il brand Chiara Ferragni, venendo all’esempio concreto, è tale anche perché è mamma».

C’è chi, per sdrammatizzare, ha detto: anche noi, da piccoli, eravamo costretti a posare per le foto di famiglia. Come la mettiamo?
«Un conto è la foto di famiglia: fino alla generazione precedente era un oggetto personale, diciamo intimo, da stampare e dare ai nonni, ai cugini. Era un ricordo di qualcosa. Ma rimaneva nella sfera privata. Qui, invece, abbiamo una dimensione pubblica. Tant’è che un profilo social, a ben vedere, è un oggetto commerciale. Lo stesso dicasi della piattaforma su cui un contenuto viene postato. Se pubblichiamo una foto dei nostri figli, beh, parliamo di un elemento che finisce nell’algoritmo della piattaforma. Parliamo di dati che profilano te, chi mette like e chi visualizza l’immagine. E il fine è chiarissimo: fare pubblicità mirata. È difficile, secondo me, vedere un’altra prospettiva se non questa».

Com’è possibile che gli utenti non si rendano conto che simili contenuti, in realtà, sono costruiti? Perché, insomma, l’immagine dei Ferragnez, nonostante tutto, appare come naturale?
«I social vivono proprio di questa immagine di naturalezza. Siccome tutti possiamo postare una foto sui social e siccome tutti lo facciamo in maniera ingenua, ci aspettiamo che chiunque lo faccia con una certa dose di ingenuità. Ma non è così, chiaramente. Io posso suonare la chitarra, ma non è che divento Keith Richards perché suono la chitarra: lui è un musicista e lo fa di professione, io sono un dilettante. E qui è un po’ la stessa cosa: i social vivono di ambiguità. Noi tutti sogniamo di diventare famosi e pensiamo che basti postare una foto carina, in realtà parliamo di un mestiere. Un mestiere costruito».

Noi non conosciamo Fedez o Chiara Ferragni, conosciamo i loro personaggi. E come tutti i personaggi pubblici, va ricordato che esiste una distanza fra come appaiono e come sono

Quindi?
«Quindi attraverso i social noi non conosciamo Fedez o Chiara Ferragni, conosciamo i loro personaggi. E come tutti i personaggi pubblici, va ricordato che esiste una distanza fra come appaiono e come sono. Il motivo per cui bisogna fare molta attenzione con i bambini è proprio questo. Un bambino piccolo che cresce con un’immagine pubblica già definita, ne subisce inevitabilmente un’influenza forte. È un tema delicato. Sappiamo che iniziano ad esserci tanti casi di figli che diventando grandi fanno causa ai loro genitori per aver disseminato il web di loro tracce indesiderate».

Viene in mente il bambino immortalato nella copertina di Nevermind dei Nirvana, che da adulto decise di fare causa alla band.
«Quel bambino, tuttavia, era sostanzialmente irriconoscibile. Il discorso cambia ulteriormente se noi lasciamo traccia di nostro figlio, con tanto di nome e cognome. È una traccia più massiccia. E vale tanto per i Ferragnez quanto per noi tutti. Non sappiamo se i nostri figli vogliono essere sui social. Stiamo ipotecando la loro privacy senza che, prima, si rendano conto di averla. Che bene ne traggono?».

Ma il problema, esattamente, quando è nato? E perché? Siamo noi che, agli albori dei social, li abbiamo usati senza ragionare sulle possibili conseguenze? E ora non è troppo tardi per rimediare?
«Non penso sia troppo tardi. C’è, a monte, un discorso di evoluzione storica. Negli anni Duemila, quando arrivarono i social, non erano un tritacarne di marketing come lo sono adesso. C’era molta ingenuità da parte degli utenti, che hanno privilegiato la condivisione di momenti, foto e informazioni rispetto alle dinamiche commerciali, che sono emerse piano piano. Siamo stati tutti abbagliati, in fondo, in particolare i giovani, dal fatto che tramite i social uno potesse fare soldi e diventare famoso. In realtà è un mestiere che uno sceglie, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che può avere. Quando vendiamo le nostre immagini, come succede ad esempio su OnlyFans, ci sembra di essere protetti ma in realtà stiamo usando la nostra immagine per un fine commerciale. E noi, si badi, siamo anche la nostra immagine. Non possiamo separare le due cose: il modo in cui ci vedono gli altri e come noi vediamo noi stessi sono i due lati di uno specchio. Non sono mai due cose separate». 

Noi di fatto siamo una società che, nel suo insieme, premia l’ipervisibilità degli eroi e dei modelli. Parlarne a scuola è importante, ma la scuola da sola non basta

Lei fa parte del mondo accademico: pensa che la scuola sia troppo distante dalle cosiddette dinamiche social?
«Io penso, al contrario, ci sia speranza in questo senso. La scuola è fatta di adulti e gli adulti sono un passo indietro rispetto all’evoluzione tecnologica, che è mirata sugli adolescenti come target commerciale. Conosco tanti docenti che stanno agendo, con gli strumenti che hanno a disposizione. Ma è un tema, questo, che riguarda l’educazione in senso lato e quindi anche la famiglia e altri contesti educativi. Noi di fatto siamo una società che, nel suo insieme, premia l’ipervisibilità degli eroi e dei modelli. Parlarne a scuola è importante, ma la scuola da sola non basta».

Qual è, allora, il consiglio che darebbe ai genitori?
«Il consiglio per i genitori è di essere molto, molto cauti nella diffusione delle foto dei propri figli. Ci sono un sacco di modi per fare avere le immagini dei piccoletti ai nonni, ai cugini, ai parenti tutti, senza necessariamente passare dai social. La loro immagine è la loro immagine. Punto. Non dobbiamo ipotecargliela».

E ai giovani, che cosa direbbe?
«La stessa cosa: essere cauti. Oggi lasciamo una traccia che ci sembra bella sui social, ma magari fra dieci anni ce ne vergogneremo. Di fatto, stiamo nutrendo un algoritmo che si occupa della pubblicità che ci viene rivolta».

Torniamo a Chiara Ferragni e chiudiamo: quanto è alto il rischio che il suo modello diventi, per osmosi, il modello di riferimento per essere genitore?
«Forse oggigiorno c’è questa cosa di voler esibire l’essere genitori. Sono un papà anche io, ma penso che la genitorialità si svolga su altre dimensioni. Il fatto che la gente ci dica di essere bravi genitori non ci rende, automaticamente, bravi genitori. È un impegno costante, fatto di attenzione, di pazienza, di cura, di errori e correzioni. Va recuperata, penso, una certa essenzialità. Noi siamo noi stessi non perché appariamo belli. Allo stesso modo, siamo genitori non perché appariamo super performanti sui social».