Siamo stanchi di Facebook e Twitter? «È finito un corso, ora devono innovarsi»
Meta cade in borsa e taglia posti di lavoro. Twitter cambia proprietario e licenzia. I social network che per anni sono stati i protagonisti indiscussi delle nostre vite davanti allo schermo, sembrano aver raggiunto una fase di stallo. E non è solo questione di innovazione: i colossi del web ora sono chiamati a fare i conti con le leggi sulla protezione dei dati personali, dopo un lungo periodo di libertà quasi assoluta. È inevitabile: il tempo passa e le cose cambiano. Facebook, creato nel 2004 da Mark Zuckerberg, è diventato maggiorenne e forse il peso dell’età inizia a farsi sentire. Ci siamo stancati dei social network? È arrivato il momento di reinventarsi, tra regole più severe, lotta alle fake news, abbonamenti a pagamento (per Twitter si parla di 8 dollari al mese) e idee ancora embrionali di metaverso? Ne parliamo con il dottor Alessandro Trivilini, responsabile del Servizio informatica forense della SUPSI.
Dottor
Trivilini, partiamo da un quadro generale: qual è lo stato di salute di
Facebook, Instagram e Twitter?
«Nella loro categoria, questi social network hanno concluso un ciclo
quasi ventennale. Tra chi è arrivato prima e chi un po’ dopo, hanno chiuso un
corso in cui hanno portato un nuovo paradigma relativo all’utilizzo del web,
non solo nel modo di interagire e di relazionarsi con altri utenti, ma anche
nel modo di fare business: lo hanno condizionato e contaminato. I social sono
diventati a tutti gli effetti strumenti di lavoro. Di fatto, si è concluso un
ciclo in cui i vari Facebook e Twitter hanno fatto il bello e il cattivo tempo:
non c’erano regole sulla privacy e non c’erano leggi sulla raccolta dei dati
personali. Le persone hanno accolto questi strumenti e li hanno integrati nella
loro quotidianità sociale, principalmente con scopi ricreativi, come fossero un
gioco. Per molti è diventato un passatempo di 24 ore su 24, creando un
continuum relazionale infinito. Quando nel campo tecnologico arriva un nuovo
paradigma che si integra bene nella società, gli effetti speciali ricreativi
sono quelli predominanti, se costruiti bene. Con costruiti bene intendo creati
studiando antropologicamente il comportamento delle persone a cui si rivolgono.
Questi social, offrendo numerosi servizi, anche ludici, hanno potuto
raccogliere dati personali per 20 anni, in modo del tutto gratuito. Nessuno aveva
mai fatto una cosa del genere: non esiste al mondo nessuna altra entità,
tecnologica e non - se pensiamo alle autorità giudiziarie -, capace di
aggregare cosi tanti dati personali, di profilare e di schedare. Il tutto come
se si trattasse di un gioco. Non solo hanno fatto quello che volevano, anche
con servizi molto utili (come i motori di ricerca), ma hanno messo in
difficoltà tutte quelle aziende che in questi anni hanno cercato di creare una
competizione positiva, acquisendole o mettendole fuori mercato. I colossi del
web hanno bruciato tutta la concorrenza, ma nel campo tecnologico è
fondamentale che ci sia competitività. Questo è un errore che tutti hanno
commesso, è stato un duro colpo alla ricerca, allo sviluppo e al progresso.
Questi colossi, anche se un po’ in crisi, più da un punto di vista economico
che tecnologico, hanno comunque il dominio».
Insomma,
il classico «too big to fail»?
«Con la formazione di questo oligopolio, non c’è nessuno in grado di
prendersi una fetta di mercato. Meta e Twitter hanno un magazzino di dati che
nessuno mai probabilmente sarà in grado di gestire, questo anche se dovessero
fallire. Chi è in grado di avere un’infrastruttura tale da mettere in
congelamento o in vendita una tale quantità di dati raccolti gratuitamente? Il
solo Facebook raccoglie oltre 500 terabyte di dati al giorno. Come ho detto,
questo non ha permesso di creare un ecosistema di sviluppo e di concorrenza
positivo e leale. Oggi ne vediamo gli effetti: anche se in crisi possono
comunque continuare a fare il bello e il cattivo tempo, sia da un punto di
vista algoritmico sia da un punto di vista tecnologico e di utilizzo. Pensiamo
anche a Google: se dovesse spegnere il suo motore di ricerca per un momento, il
mondo sarebbe in fortissima crisi».
Anche
le nuove regole hanno portato a questa situazione?
«Certamente. Queste piattaforme hanno portato un nuovo paradigma, in
cui è la semplicità di utilizzo l’elemento caratterizzante, ma le regole, come
sempre, hanno dovuto rincorrere lo sviluppo tecnologico e il progresso. Dopo 20
anni, siamo entrati a piedi pari in una fase di leggi sulla protezione dei dati
personali e regole legate alla sfera della privacy. Questo in tutto il mondo,
dalla Cina, predominante in questo campo con TikTok, sino all’Europa e alla
Svizzera. L’attuale crisi dei social è strettamente legata all’introduzione di
regole che sono mancate per anni. Questi colossi sono nati per fare soldi,
hanno costruito cluster di algoritmi per raccogliere dati in un certo modo e
forse non sono più disposti a guadagnare meno laddove ci sono delle regole.
Quindi, licenziano persone, ridefinisco il modello di business che caratterizza
lo sviluppo dei prodotti, oppure – e ci stiamo arrivando a questo, pensiamo a
Twitter – viene messo un prezzo ai servizi che finora gli utenti hanno usato
gratuitamente. Oggi ci sono regole da rispettare, i social non possono più
fornire liberamente a terzi i dati degli utenti. Però ci sono costi di gestione
della privacy e legati alla sicurezza. Quindi qualcuno propone di far pagare
una fee, garantendo un servizio di qualità. Siamo di fronte a un cambiamento
epocale per i social».
Qualcuno
ha detto: «Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu». Se
i social dovessero introdurre un abbonamento, diventeranno il prodotto al posto
nostro?
«Questo passaggio non è così lineare. I colossi del web hanno alle
spalle un bacino di nostre informazioni raccolte gratuitamente per 20 anni, non
ripartono da zero. Questi dati permettono ai social di continuare a erogare i
servizi con efficacia ed efficienza. Nel caso dovessero introdurre una tassa,
un nuovo eventuale player gratuito, non potrà mai essere altrettanto accurato
come le attuali piattaforme. Mi spiego: se un’azienda oggi dovesse fare uno
strumento alternativo a Twitter, è molto difficile credere che possa avere la
stessa capacità di accuratezza nel diffondere informazioni e profilare. Questo
perché non ha quei big data raccolti per anni che consentono di “addestrare”
gli algoritmi. Se i social dovessero mettere una tassa, non dovrebbe comunque
essere troppo cara, perché devono ricordarsi che l’apprendimento automatico del
servizio che offrono è dovuta anche ai dati che noi gli abbiamo fornito
gratuitamente. Se l’abbonamento viene richiesto per garantire la sicurezza o
controllare le fake news, va bene, ma deve essere proporzionato e non
speculativo: i nostri dati per Facebook e Twitter sono un patrimonio
inestimabile».
Abbiamo
parlato di un cambio di paradigma e dell’arrivo di nuove regole, ma non si
avverte anche un senso di stanchezza? I social ci sono venuti a noia?
«Sicuramente c’è anche questo effetto. Nel campo tecnologico è sempre
stato così: quando una nuova tecnologia arriva sulla scena, parte dal basso e
non dall’alto, viene integrata dalle persone a cui si rivolge e ha successo,
c’è un fortissimo entusiasmo iniziale. Questo dà una spinta che porta ad
annebbiare tutta una serie di altre situazioni che in quel momento non si
vedono, non si pensano e non si percepiscono. C’è entusiasmo nell’usare un social
network, ma ci si dimentica che la piattaforma è costruita osservando i
comportamenti delle persone. La natura umana è per definizione pigra, altamente
prevedibile e non può crescere all’infinito: presto o tardi deve rapportarsi
con la realtà dei fatti della propria dimensione. E si arriva alla saturazione.
Non si può innovare per sempre, per cui non si può nemmeno crescere
all’infinito. Si arriva a un livello in cui o dico sempre le stesse cose, o
parlo sempre con le stesse persone, o i contenuti profilati che arrivano dal
sistema sono sempre gli stessi, perché l’algoritmo non è più in grado di
proporre nuovi prodotti».
Forse
è venuta meno anche la magia iniziale, quando si pensava di poter dire qualcosa
ed essere ascoltati da tutti, di poter diffondere contenuti ed emergere dalla
massa. Invece, come nella realtà, anche sui social: «Uno su mille ce la fa»…
«C’è questa illusione, che è poi quella che tocca anche la realtà.
Faccio un esempio recente: adesso c’è la moda della blockchain e degli NFT (non
fungible token). Cioè, ho degli oggetti che messi nella blockchain diventano
pezzi rari, non modificabili, non riproducibili. Questa cosa ha suscitato
grandissimo entusiasmo da un punto di vista tecnologico perché le persone
credono davvero che basti fare un disegno, inserirlo in questa tecnologia e nei
mercati appositi, per poter venderlo e diventare ricche. Questo perché l’ho ha
fatto Jack Dorsey, che ha venduto un tweet per milioni di dollari. È la stessa
illusione data dai social, perché un conto è avere gli strumenti per caricare
un contenuto all’interno dell’oceano di utenti che hanno le mie stesse
illusioni, un conto è far emergere quel contenuto e raggiungere chi è veramente
interessato. Sui social non è più “uno su mille ce la fa”, piuttosto “uno su un
miliardo ce la fa”. La tecnologia diventa uno strumento in più per avere
successo, ma da sola non può creare del valore attorno a una persona
sconosciuta».
Il
futuro degli attuali social network sarà il metaverso?
«I social sono stati bidimensionali per venti anni. Di fatto parliamo
di una pagina di testo, con foto e video. Ci stiamo annoiando di questo, perché
lo sviluppo non si ferma mai, la multimedialità cresce e diventa sempre più
attrattiva. Basti pensare al mondo dei videogiochi e dell’intrattenimento. Il
vero metaverso non è quello con l’avatar che si muove in uno spazio
tridimensionale, ma quello che sarà una sorta di teletrasporto nel mondo
virtuale e, secondo me, non arriverà prima di 8-10 anni. Il metaverso è
interessante ma è ancora immaturo: aggiungerà una nuova dimensione, sarà
un’estensione del corpo umano e sarà immersivo. Quindi verranno aggiunte nuove
funzioni che toglieranno la polvere accumulata dagli attuali social. Al momento
abbiamo un’opera a metà, che integra l’avatar a qualcosa che viene riprodotto
con dati reali: è molto funzionale solo in determinati ambiti, come quello
della disabilità o della formazione. Per il metaverso vero e proprio, servirà
almeno il 5G, ma più realisticamente il 6G».
E
in questi 10 anni di attesa cosa faranno Facebook e Twitter per restare
attrattivi?
«Entriamo in un periodo di leggi sulla protezione dei dati: i social
dovranno tirare i remi in barca per non perdere utenti, proteggendoli ed
evitando un fuggi fuggi generale. Il tutto nel rispetto della privacy. Questo
probabilmente porterà a Facebook e Twitter dei costi a cui non erano abituati,
mentre nel frattempo cercheranno di arrivare ad un cambiamento di paradigma:
dal 2D al 3D immersivo. È un passaggio obbligatorio, perché le nuove
generazioni di nativi digitali sono fortemente vicine al mondo dei videogiochi,
in cui questi paradigmi sono già consolidati. Gli attuali social network erano
rivolti anche a persone che i videogames non li hanno mai utilizzati. I
paradigmi del metaverso, dai social, poi verranno portati nel mondo
professionale, in quello scolastico e in tutta la società».