L'intervista

Siamo stanchi di Facebook e Twitter? «È finito un corso, ora devono innovarsi»

Dopo circa 20 anni, i social sono in crisi, tra licenziamenti e nuove regole: ne parliamo con Alessandro Trivilini della SUPSI
Michele Montanari
11.11.2022 11:15

Meta cade in borsa e taglia posti di lavoro. Twitter cambia proprietario e licenzia. I social network che per anni sono stati i protagonisti indiscussi delle nostre vite davanti allo schermo, sembrano aver raggiunto una fase di stallo. E non è solo questione di innovazione: i colossi del web ora sono chiamati a fare i conti con le leggi sulla protezione dei dati personali, dopo un lungo periodo di libertà quasi assoluta. È inevitabile: il tempo passa e le cose cambiano. Facebook, creato nel 2004 da Mark Zuckerberg, è diventato maggiorenne e forse il peso dell’età inizia a farsi sentire. Ci siamo stancati dei social network? È arrivato il momento di reinventarsi, tra regole più severe, lotta alle fake news, abbonamenti a pagamento (per Twitter si parla di 8 dollari al mese) e idee ancora embrionali di metaverso? Ne parliamo con il dottor Alessandro Trivilini, responsabile del Servizio informatica forense della SUPSI.

Dottor Trivilini, partiamo da un quadro generale: qual è lo stato di salute di Facebook, Instagram e Twitter?
«Nella loro categoria, questi social network hanno concluso un ciclo quasi ventennale. Tra chi è arrivato prima e chi un po’ dopo, hanno chiuso un corso in cui hanno portato un nuovo paradigma relativo all’utilizzo del web, non solo nel modo di interagire e di relazionarsi con altri utenti, ma anche nel modo di fare business: lo hanno condizionato e contaminato. I social sono diventati a tutti gli effetti strumenti di lavoro. Di fatto, si è concluso un ciclo in cui i vari Facebook e Twitter hanno fatto il bello e il cattivo tempo: non c’erano regole sulla privacy e non c’erano leggi sulla raccolta dei dati personali. Le persone hanno accolto questi strumenti e li hanno integrati nella loro quotidianità sociale, principalmente con scopi ricreativi, come fossero un gioco. Per molti è diventato un passatempo di 24 ore su 24, creando un continuum relazionale infinito. Quando nel campo tecnologico arriva un nuovo paradigma che si integra bene nella società, gli effetti speciali ricreativi sono quelli predominanti, se costruiti bene. Con costruiti bene intendo creati studiando antropologicamente il comportamento delle persone a cui si rivolgono. Questi social, offrendo numerosi servizi, anche ludici, hanno potuto raccogliere dati personali per 20 anni, in modo del tutto gratuito. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere: non esiste al mondo nessuna altra entità, tecnologica e non - se pensiamo alle autorità giudiziarie -, capace di aggregare cosi tanti dati personali, di profilare e di schedare. Il tutto come se si trattasse di un gioco. Non solo hanno fatto quello che volevano, anche con servizi molto utili (come i motori di ricerca), ma hanno messo in difficoltà tutte quelle aziende che in questi anni hanno cercato di creare una competizione positiva, acquisendole o mettendole fuori mercato. I colossi del web hanno bruciato tutta la concorrenza, ma nel campo tecnologico è fondamentale che ci sia competitività. Questo è un errore che tutti hanno commesso, è stato un duro colpo alla ricerca, allo sviluppo e al progresso. Questi colossi, anche se un po’ in crisi, più da un punto di vista economico che tecnologico, hanno comunque il dominio».

Insomma, il classico «too big to fail»?
«Con la formazione di questo oligopolio, non c’è nessuno in grado di prendersi una fetta di mercato. Meta e Twitter hanno un magazzino di dati che nessuno mai probabilmente sarà in grado di gestire, questo anche se dovessero fallire. Chi è in grado di avere un’infrastruttura tale da mettere in congelamento o in vendita una tale quantità di dati raccolti gratuitamente? Il solo Facebook raccoglie oltre 500 terabyte di dati al giorno. Come ho detto, questo non ha permesso di creare un ecosistema di sviluppo e di concorrenza positivo e leale. Oggi ne vediamo gli effetti: anche se in crisi possono comunque continuare a fare il bello e il cattivo tempo, sia da un punto di vista algoritmico sia da un punto di vista tecnologico e di utilizzo. Pensiamo anche a Google: se dovesse spegnere il suo motore di ricerca per un momento, il mondo sarebbe in fortissima crisi».

Anche le nuove regole hanno portato a questa situazione?
«Certamente. Queste piattaforme hanno portato un nuovo paradigma, in cui è la semplicità di utilizzo l’elemento caratterizzante, ma le regole, come sempre, hanno dovuto rincorrere lo sviluppo tecnologico e il progresso. Dopo 20 anni, siamo entrati a piedi pari in una fase di leggi sulla protezione dei dati personali e regole legate alla sfera della privacy. Questo in tutto il mondo, dalla Cina, predominante in questo campo con TikTok, sino all’Europa e alla Svizzera. L’attuale crisi dei social è strettamente legata all’introduzione di regole che sono mancate per anni. Questi colossi sono nati per fare soldi, hanno costruito cluster di algoritmi per raccogliere dati in un certo modo e forse non sono più disposti a guadagnare meno laddove ci sono delle regole. Quindi, licenziano persone, ridefinisco il modello di business che caratterizza lo sviluppo dei prodotti, oppure – e ci stiamo arrivando a questo, pensiamo a Twitter – viene messo un prezzo ai servizi che finora gli utenti hanno usato gratuitamente. Oggi ci sono regole da rispettare, i social non possono più fornire liberamente a terzi i dati degli utenti. Però ci sono costi di gestione della privacy e legati alla sicurezza. Quindi qualcuno propone di far pagare una fee, garantendo un servizio di qualità. Siamo di fronte a un cambiamento epocale per i social». 

Questo passaggio non è così lineare. I colossi del web hanno alle spalle un bacino di nostre informazioni raccolte gratuitamente per 20 anni, non ripartono da zero

Qualcuno ha detto: «Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu». Se i social dovessero introdurre un abbonamento, diventeranno il prodotto al posto nostro?
«Questo passaggio non è così lineare. I colossi del web hanno alle spalle un bacino di nostre informazioni raccolte gratuitamente per 20 anni, non ripartono da zero. Questi dati permettono ai social di continuare a erogare i servizi con efficacia ed efficienza. Nel caso dovessero introdurre una tassa, un nuovo eventuale player gratuito, non potrà mai essere altrettanto accurato come le attuali piattaforme. Mi spiego: se un’azienda oggi dovesse fare uno strumento alternativo a Twitter, è molto difficile credere che possa avere la stessa capacità di accuratezza nel diffondere informazioni e profilare. Questo perché non ha quei big data raccolti per anni che consentono di “addestrare” gli algoritmi. Se i social dovessero mettere una tassa, non dovrebbe comunque essere troppo cara, perché devono ricordarsi che l’apprendimento automatico del servizio che offrono è dovuta anche ai dati che noi gli abbiamo fornito gratuitamente. Se l’abbonamento viene richiesto per garantire la sicurezza o controllare le fake news, va bene, ma deve essere proporzionato e non speculativo: i nostri dati per Facebook e Twitter sono un patrimonio inestimabile».

Abbiamo parlato di un cambio di paradigma e dell’arrivo di nuove regole, ma non si avverte anche un senso di stanchezza? I social ci sono venuti a noia?
«Sicuramente c’è anche questo effetto. Nel campo tecnologico è sempre stato così: quando una nuova tecnologia arriva sulla scena, parte dal basso e non dall’alto, viene integrata dalle persone a cui si rivolge e ha successo, c’è un fortissimo entusiasmo iniziale. Questo dà una spinta che porta ad annebbiare tutta una serie di altre situazioni che in quel momento non si vedono, non si pensano e non si percepiscono. C’è entusiasmo nell’usare un social network, ma ci si dimentica che la piattaforma è costruita osservando i comportamenti delle persone. La natura umana è per definizione pigra, altamente prevedibile e non può crescere all’infinito: presto o tardi deve rapportarsi con la realtà dei fatti della propria dimensione. E si arriva alla saturazione. Non si può innovare per sempre, per cui non si può nemmeno crescere all’infinito. Si arriva a un livello in cui o dico sempre le stesse cose, o parlo sempre con le stesse persone, o i contenuti profilati che arrivano dal sistema sono sempre gli stessi, perché l’algoritmo non è più in grado di proporre nuovi prodotti».

Forse è venuta meno anche la magia iniziale, quando si pensava di poter dire qualcosa ed essere ascoltati da tutti, di poter diffondere contenuti ed emergere dalla massa. Invece, come nella realtà, anche sui social: «Uno su mille ce la fa»…
«C’è questa illusione, che è poi quella che tocca anche la realtà. Faccio un esempio recente: adesso c’è la moda della blockchain e degli NFT (non fungible token). Cioè, ho degli oggetti che messi nella blockchain diventano pezzi rari, non modificabili, non riproducibili. Questa cosa ha suscitato grandissimo entusiasmo da un punto di vista tecnologico perché le persone credono davvero che basti fare un disegno, inserirlo in questa tecnologia e nei mercati appositi, per poter venderlo e diventare ricche. Questo perché l’ho ha fatto Jack Dorsey, che ha venduto un tweet per milioni di dollari. È la stessa illusione data dai social, perché un conto è avere gli strumenti per caricare un contenuto all’interno dell’oceano di utenti che hanno le mie stesse illusioni, un conto è far emergere quel contenuto e raggiungere chi è veramente interessato. Sui social non è più “uno su mille ce la fa”, piuttosto “uno su un miliardo ce la fa”. La tecnologia diventa uno strumento in più per avere successo, ma da sola non può creare del valore attorno a una persona sconosciuta».

I social sono stati bidimensionali per venti anni. Di fatto parliamo di una pagina di testo, con foto e video. Ci stiamo annoiando di questo

Il futuro degli attuali social network sarà il metaverso?
«I social sono stati bidimensionali per venti anni. Di fatto parliamo di una pagina di testo, con foto e video. Ci stiamo annoiando di questo, perché lo sviluppo non si ferma mai, la multimedialità cresce e diventa sempre più attrattiva. Basti pensare al mondo dei videogiochi e dell’intrattenimento. Il vero metaverso non è quello con l’avatar che si muove in uno spazio tridimensionale, ma quello che sarà una sorta di teletrasporto nel mondo virtuale e, secondo me, non arriverà prima di 8-10 anni. Il metaverso è interessante ma è ancora immaturo: aggiungerà una nuova dimensione, sarà un’estensione del corpo umano e sarà immersivo. Quindi verranno aggiunte nuove funzioni che toglieranno la polvere accumulata dagli attuali social. Al momento abbiamo un’opera a metà, che integra l’avatar a qualcosa che viene riprodotto con dati reali: è molto funzionale solo in determinati ambiti, come quello della disabilità o della formazione. Per il metaverso vero e proprio, servirà almeno il 5G, ma più realisticamente il 6G».

E in questi 10 anni di attesa cosa faranno Facebook e Twitter per restare attrattivi?
«Entriamo in un periodo di leggi sulla protezione dei dati: i social dovranno tirare i remi in barca per non perdere utenti, proteggendoli ed evitando un fuggi fuggi generale. Il tutto nel rispetto della privacy. Questo probabilmente porterà a Facebook e Twitter dei costi a cui non erano abituati, mentre nel frattempo cercheranno di arrivare ad un cambiamento di paradigma: dal 2D al 3D immersivo. È un passaggio obbligatorio, perché le nuove generazioni di nativi digitali sono fortemente vicine al mondo dei videogiochi, in cui questi paradigmi sono già consolidati. Gli attuali social network erano rivolti anche a persone che i videogames non li hanno mai utilizzati. I paradigmi del metaverso, dai social, poi verranno portati nel mondo professionale, in quello scolastico e in tutta la società».