Antologia vivente del mondo moderno
Itinerario
(aprile 2011)
- New York
Durata del viaggio: 7 giorni
Operatore turistico: Organizzato in proprio
È un vero peccato scoprire New York solo dopo aver compiuto i 60 anni, perché è una splendida città che si presta a essere goduta in diversi momenti della vita. L’ho visitata spinto da mia moglie, che ne ha sempre sentito parlare in famiglia come prima tappa americana dei suoi parenti emigrati in California. Mi aspettavo una città caotica, opprimente. Non ho trovato nulla di tutto questo e ho trascorso una settimana piacevolissima.
Abbiamo alloggiato a Soho nella Downtown, la zona certamente più pittoresca della città diventata recentemente alla moda: è molto vivace ed è la meta preferita di chi ama lo shopping. Ma anche di chi apprezza la buona cucina! Fino a non molti anni fa era un quartiere malfamato, dove proliferavano prostituzione, droga e malavita. Oggi si esce tranquillamente la sera per passeggiare lungo stradine vivacissime, animate da negozi, bar e ristorantini molto frequentati dai giovani.
Fino ad alcuni anni fa si diceva che la Grande Mela fosse una città pericolosa. Oggi ci si sposta sia di giorno, sia di sera senza problemi sentendosi assolutamente a proprio agio. Anche perché i newyorchesi sono molto gentili. Se ti fermi in strada a consultare una cartina, subito qualcuno si avvicina e ti chiede se hai bisogno di spiegazioni.
Ogni anno New York è visitata da 50 milioni di turisti che portano un indotto di oltre 30 miliardi di dollari. Il tempo minimo per farsi un’idea della città è una settimana. In questa sede non ha senso suggerire itinerari. Avendo pochi giorni a disposizione la nostra visita si limita all’isola di Manhattan: lunga 20 chilometri e larga 3,5, che è facilmente percorribile in metropolitana. Per allestire il vostro programma a seconda dei vostri interessi consiglio di consultare la «Guida Verde» della Michelin. Nelle prossime righe cercherò di elencare le principali tematiche su cui si è concentrato il nostro soggiorno.
Antologia vivente del mondo moderno
Come scrive il noto giornalista italiano Corrado Augias nel suo libro «I segreti di New York», questa «è la città dove è nata la vita moderna, intendo dire il luogo in cui la vita moderna ha assunto, anche se nata altrove, un suo stile, una cifra riconoscibile che le ha consentito di imporsi ovunque come paradigma della modernità».
È stata la prima metropoli (nel 1898 era la città più popolata del mondo), qui sono sorti i primi grattacieli, è stata costruita la prima metropolitana, realizzato il primo ascensore, le prime reti di radiodiffusione hanno trasmesso da New York. Wall Street ha dato le origini alla finanza moderna, Madison Avenue alla pubblicità. La Grande Mela ha dato vita ai più interessanti fenomeni culturali, letterari e visivi del XX secolo. Oltre 300 anni fa, quando era ancora una colonia britannica, qui si posero le basi per la libertà di stampa.
«A New York – osserva ancora Augias – l’Europa c’è, si sente, si vede, senza l’Europa New York semplicemente non esisterebbe. Tuttavia anche la presenza europea, quella fisica degli individui e quella immateriale della cultura, su questa sponda dell’Atlantico si è trasformata, resta riconoscibile, è vero, ma è anche diventata un’altra cosa». Fatta di molte etnie, piena di italiani, di ebrei, di latinoamericani, di cinesi, di neri, di anglosassoni e ora anche di russi di nuova immigrazione, la Grande Mela ha una fisionomia composita dove nessuno sembra riuscire a imporre il suo tratto distintivo. Secondo uno studio, nella città americana più raccontata dalla letteratura e dal cinema si parlano 800 lingue.
Chi conosce bene gli Stati Uniti sostiene che New York non è una tipica città americana. No, certamente, è la capitale del mondo occidentale. E non solo perché ospita le Nazioni Unite, ma perché è un’antologia vivente, nel bene e nel male, dello sviluppo del mondo moderno. Rappresenta un simbolo di quell’America aperta e liberale, che ho amato e amo, dei Roosevelt, dei Kennedy, degli Obama. Un paese che persegue gli ideali della libertà e cerca di garantire ai suoi cittadini pari opportunità di partenza. È un'affermazione molto discutibile – ne sono conscio – perché questo stesso paese ha rappresentato a tratti anche la negazione di questi ideali, ha seguito squallide Realpolitik, ha sostenuto spietate dittature, ha contribuito a rovesciare governi democraticamente eletti per sostituirli con feroci giunte militari. È con queste due facce dell’America che si è confrontata la mia generazione.
I diversi volti di New York
Quando si pensa alla Grande Mela vengono prima di tutto alla mente i suoi grattacieli. I primi sorsero a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento in stile Art déco. Il più noto è certamente l’Empire State Building, realizzato nel 1931 e che per 40 anni rimase l’edificio più alto al mondo. Offre una straordinaria vista su Manhattan e su tutta la città. Percorrendo i notissimi viali di Manhattan che attraversano tutta la metropoli (Avenue of the Americas, Fifth Avenue, Madison Avenue, Park Avenue e le arterie laterali 42ma, 57ma,…) si può ammirare l’evoluzione dell’architettura newyorchese, fino ad arrivare alle opere più moderne dei cosiddetti archistar, cioè gli autori di maggior fama. «Qui abbiamo sempre avuto il mito dell’altezza – ha spiegato sulla rivista Meridiani (New York, dic. 2010) Rick Bell, il direttore del Center for Architecture – e quindi tutti hanno cercato di stupire costruendo edifici via via più alti. Da qualche anno, però, si tenta di meravigliare con forme architettoniche originali e futuristiche, elaborate e spettacolari». La nuova architettura sfrutta moltissimo la luce per migliorare la qualità di vita. «L’importante – osserva Bell – è che ci si sia resi conto che le metropoli sono fatte per le persone e non per le automobili». Gli spazi verdi in città sono ricercatissimi e curatissimi. Addirittura alcuni grattacieli dispongono di giardini interni al piano terreno.
Un’opera estremamente interessante è stato il recupero di una vecchia ferrovia sopraelevata trasformata in un lungo e stretto giardino paesaggistico curato e di sicura bellezza denominato High Line nella zona di Chelsea, da cui si guarda sulla città con un appassionante punto di vista. Ma il polmone verde di Manhattan rimane Central Park, un microcosmo di flora e fauna in simbiosi con grattacieli e traffico, inquinamento e turisti. Realizzato nella metà dell’Ottocento, vanta 340 ettari di alberi, rocce, laghetti, stagni, percorsi pedonali, dove è piacevolissimo rilassarsi dopo le impegnative visite agli straordinari musei che si affacciano sul parco. Nello spazio di poche centinaia di metri si trovano quattro musei che offrono una panoramica straordinaria e unica sulla storia dell’arte universale. Consiglio di visitarne uno al giorno il mattino, quando si è freschi, e di dedicare il pomeriggio alla visita dei vari quartieri della città.
Lezione eccezionale di storia dell’arte
Definirei addirittura scoraggiante il Metropolitan Museum of Art, dove si potrebbe trascorrere settimane, perché espone opere eccezionali a partire dall’arte egizia ai nostri giorni. Trovare un percorso relativamente veloce per apprezzare le opere più straordinarie è difficile. Per questo vale la pena di preparare la visita da casa.
La Frick Collection propone un'incredibile collezione privata esposta in una splendida villa di inizio Novecento. Quasi ogni opera è un capolavoro e il percorso (circa 3 ore) è agevolato da un’ottima audioguida. Così come al Guggenheim Museum dove la visita consiste in una straordinaria lezione di storia dell’arte sul periodo che va dalla fine dell’Ottocento fino alla Prima Guerra Mondiale (gli allestimenti cambiano periodicamente). Non solo i contenuti, ma anche il contenitore è un’opera artistica di grande valore del famoso architetto Frank Lloyd Wright (1867-1959), padre dell'architettura americana moderna. Il Museum of Modern Art (MoMA) offre invece, una panoramica della scultura e della pittura dal 1880 a oggi con interessanti sezioni dedicate anche al design e alla fotografia (calcolare 3 ore, con una buona audioguida).
Ogni quartiere è un mondo a sé
Manhattan conta una miriade di quartieri diversissimi tra loro che costituiscono ciascuno un mondo a sé e sono estremamente interessanti da esplorare. La parte alta della città (Uptown) che si sviluppa attorno a Central Park è caratterizzata dalle residenze di lusso. Più a nord si trova Harlem, il quartiere dei latinoamericani. A sud del Central Park sorgono i grattacieli, le vie commerciali, gli alberghi più prestigiosi, e Times Square, dove si concentrano teatri, cinema, locali notturni, bar e dove schermi giganteschi proiettano immagini televisive e pubblicità generando un incredibile sfavillio di luci e bagliori. A est di Times Square, all'estremità della 42ma strada, si trova la sede delle Nazioni Unite, dove si può visitare la sala dell’assemblea generale, il governo del mondo. Nonostante i suoi detrattori, l’ONU rimane l’unica istituzione a livello mondiale dove tutte le nazioni si possono confrontare pacificamente. Composta da 193 paesi membri, ha come scopo la «difesa della pace e della sicurezza internazionale, la promozione dell’autodeterminazione e della parità dei diritti, dell’incoraggiamento del benessere economico e sociale». Principi sacrosanti, che purtroppo riesce a garantire solo in parte. Ma almeno ci prova!
Nella parte più a sud di Manhattan, si trovano i quartieri più pittoreschi. East Village, Greenwich Village, Soho, Lower East Side, Little Italy, Chinatown e Tribeca, che hanno ognuno una propria personalità e compongono un tassello di quell’unico microcosmo interrazziale e multiculturale che è Downtown (la città bassa). Oggi gli edifici rimessi a nuovo ospitano scintillanti boutiques, hotel, musei dalle forme sperimentali e templi della gastronomia. Certo, perché tra le arti contemporanee, oltre alla moda e al design, va annoverata anche la cucina. Si possono trovare ristoranti di tutte le nazionalità: la guida rossa della Michelin (New York City, Restaurants) propone indirizzi qualificati riguardanti la cucina di 50 paesi. La stessa guida propone anche una vasta scelta di alberghi. Consiglio di risiedere a Downtown, a Soho o a Greenwich, dove la sera si può passeggiare lungo vie animate alla ricerca della gastronomia etnica.
Sulla punta meridionale di Manhattan, dove nel XVII secolo sorsero le prime abitazioni, si trova il cosiddetto Financial District, caratterizzato come la Middle Town da grattacieli modernissimi. È qui che l’11 settembre 2001 avvenne il tragico attacco terroristico alle torri gemelle del World Trade Center ed è qui che nel 1792 ventiquattro intermediari si riunirono per fondare il primo mercato borsistico di New York. Nella camera blindata della Federal Reserve, che sorge a poca distanza (visitabile solo prenotando con settimane di anticipo), sono conservate le riserve auree di un’ottantina di Stati. È considerato il maggiore deposito di oro al mondo.
Un pellegrinaggio della memoria
A poche centinaia di metri dal World Trade Center partono i battelli che portano alla statua della libertà e a Ellis Island, porta d’entrata per milioni di persone che arrivarono in America tra il 1892 e il 1954. A cavallo tra Ottocento e Novecento furono molti i ticinesi che lasciarono il cantone non in grado di garantir loro un futuro per tentare la fortuna nel Nuovo Mondo. New York per loro rappresentava solo un luogo di passaggio e la Statua della Libertà il simbolo di speranza.
Un pellegrinaggio della memoria ci porta pertanto a salpare da Battery Park con un traghetto che ci porta sui luoghi di sbarco dei nostri antenati. Siamo in centinaia, di ogni nazionalità, sull’imbarcazione che percorre lentamente il tragitto che separa Liberty Island da Manhattan. L’emozione di tutti è palpabile: foto a raffica, mentre la grande statua (Miss Liberty, la chiamano, e qualche giorno più tardi la vedremo in una bella mostra al museo dei nativi americani rifatta a mo’ di bambola) si avvicina e alle nostre spalle i grattacieli si fanno più piccoli, con il caratteristico profilo che si staglia contro il cielo. La statua, che celebra l’amicizia franco-americana – fu un dono al Nuovo Mondo della Francia – è alta 46 metri (a cui si aggiungono 47 metri di piedistallo) e raffigura una donna incoronata che calpesta la tirannia simbolizzata da catene; nella mano sinistra regge la tavola con la dichiarazione dell’indipendenza (1776), con la destra alza la torcia con il fuoco della libertà. La corona ha sette punte, quanti i continenti e i mari verso cui irradia sentimenti di speranza e libertà. Costruita a Parigi, fu donata agli Stati Uniti nel 1883 e varcò l’oceano in casse: fu assemblata a New York e inaugurata nel 1886. Alla sua creazione parteciparono illustri personalità dell’epoca: Édouard René de Laboulaye ne fu l’ideatore, Frédéric-Auguste Bartholdi il progettista, Gustave Eiffel, che costruì la famosa torre parigina, partecipò all’impresa quale ingegnere. Costituita da un’armatura in acciaio rivestita da 300 placche in rame, con il tempo ha assunto il caratteristico colore. Negli anni Ottanta, in occasione del suo centesimo compleanno, è stata restaurata. Per visitarla occorre prenotarsi per tempo. Se l’intenzione è di accedere solamente all’isola per vedere la Libertà da vicino, e da tutte le angolazioni, basta prenotare il traghetto online (si evitano così le code che possono essere assai lunghe). Per salire invece sul basamento o addirittura in alto, sulla corona, occorre tener conto che gli accessi sono ridotti a poche centinaia di visitatori al giorno e i tempi di attesa possono essere di settimane.
Noi ci accontentiamo dell’isola. Un gruppo di turisti si improvvisa coro – niente male, per la verità - e intona canti di libertà. Fioccano gli applausi. Contempliamo a lungo questo simbolo con sentimenti contrastanti: America uguale libertà? Il discorso è lungo e aperto.
Risaliamo sul traghetto e in pochi minuti sbarchiamo a Ellis Island. Qui, dal 1892 al 1954, sono passati circa 20 milioni di persone provenienti da ogni dove, sbarcati in America da navi su cui avevano viaggiato in terza classe (i passeggeri di prima e seconda erano sottoposti a controlli meno severi prima dello sbarco). La struttura è composta di diversi edifici e dal 1990 ospita il museo dedicato all’immigrazione.
L’inizio del percorso museale è di grande impatto. Una catasta di valigie, ceste in vimini, bauli in legno, sacchi e fagotti legati alla bell’e meglio, uno sopra l’altro, di ogni dimensione, di ogni provenienza. Qui si arrivava con bagagli, pene, preoccupazioni, speranze. La chiamano l’isola delle lacrime. Dietro a ogni arrivo c’è stata una partenza: i familiari lasciati, la casa, gli amici, il proprio paese. Grandi fotografie in bianco e nero mostrano uomini, donne, bambini, vecchi all’arrivo. Sguardi stanchi e timorosi. Occhi che interrogano il futuro. La trafila burocratica per avere accesso al suolo americano comprendeva dapprima una visita medica, in particolare un temutissimo esame degli occhi (si cercavano i segnali di una malattia contagiosa, il tracoma, in presenza della quale il rimpatrio era immediato). Chi non superava questo primo scoglio veniva segnato con un gesso: una X sulla spalla che significava ulteriori approfondimenti. Anziani, malati mentali e contagiosi potevano essere rimpatriati immediatamente (statistiche ufficiali parlano del 2% di esclusi); le immagini dei respinti sono strazianti.
Arriviamo nella vastissima sala di registrazione, la Registry Room, e proseguiamo attraverso le sale del museo che seguono i migranti nelle loro peripezie esponendo documenti, immagini, oggetti, testimonianze orali: le lunghissime file agli sportelli, i controlli, la registrazione dei dati anagrafici, il cambio della valuta, l’acquisto dei beni di ristoro e quello dei biglietti ferroviari. Un’avventura che per alcuni durava qualche ora, per altri alcuni giorni. Lasciata alle spalle Ellis Island e sbarcati a Manhattan, di avventura ne iniziava un’altra. Quella del viaggio verso la terra promessa: solitamente la California.
La nostra giornata sulle isole è stata una lezione di storia. Non potevamo non concluderla con una puntata all’American Family Immigration History Center. Con pochi dollari si accede ai computer mediante i quali si possono cercare le tracce dei propri antenati nella vastissima banca dati dove sono stati registrati i passaggi a Ellis Island. Si calcola che 100 milioni di Americani abbiano qui qualcosa da trovare delle loro radici. Una semplice ricerca permette di avere notizie sui passeggeri transitati da Ellis Island: dati anagrafici, età, data di arrivo, nome della nave, ecc. Si possono anche acquistare copie facsimile dei documenti. Ricerche simili si possono fare sul sito www.ellisisland.org.
APPENDICE
Lettere dei nostri antenati
Anni ’60, in un villaggio della Valle Verzasca – ricorda mia moglie Carla – arriva la postina con la sua borsa di cuoio, si ferma davanti alla casa e bussa alla porta, che comunque non è mai chiusa a chiave. Lascia sul tavolo della cucina il quotidiano. Di lettere ne arrivavano poche, ma quella mattina una busta di colore azzurrino, con un bordo blu e rosso, di carta leggerissima, spiccava sopra il giornale. «Hanno scritto quelli d’America», commenta suo padre.
Una scena così chissà in quante case ticinesi era consueta, quando cellulari e posta elettronica non avevano ancora invaso le nostre giornate e – soprattutto – quando i legami transoceanicia creati dall’emigrazione non si erano ancora affievoliti. Sì, perché in ogni casa – o quasi – qualcuno, tra fine Ottocento e inizio Novecento, aveva solcato i mari inserendosi in quell’immenso flusso migratorio che svuotò le regioni più povere del Ticino (e dell’Europa) di forze giovani. Erano lettere di emigranti che con lungimiranza e un incredibile lavoro di ricerca lo studioso e storico Giorgio Cheda riunì negli anni ’70, prima che quei legami si allentassero – con le generazioni che si susseguono e la lingua comune che si perde – e le testimonianze finissero nel fuoco, nella spazzatura o presso qualche antiquario.
Ne avevo un mazzetto anch’io – racconta mia moglie – custodite con cura dalla nonna per decenni e poi affidatemi forse perché le conservassi dopo di lei, a ricordo di quei fratelli andati lontano e mai più tornati. E così, avendo l’opportunità di visitare New York, la mia «prima America», non ho potuto fare a meno di andare a rileggerle. Certo, la magnifica porta degli States i miei antenati l’hanno appena intravvista prima di dirigersi verso la California dove erano attesi da parenti e compaesani. Scrive un fratello della nonna, partito appena diciannovenne: «19 novembre 1915. (...) siamo stati sull’acqua 15 giorni per arrivare a New Jork. (...) Quando siamo (s)barcati non abbiamo potuto scrivere perche siamo partiti subito col treno per San Francisco, ed abbiamo impiegato altri 6 giorni di treno». Ma il viaggio sul mare è stato buono, aggiunge, quasi un divertimento. Non ha avuto i problemi dell’emigrante di Someo che racconta delle acque agitate, di dieci giorni di burrasca continua: «Il giorno 25 si ebbe lo sbarco a New Jork al primo mettere piede fermo in terra stentavo andare in piedi e dondollavo come un ubbriaco» (entrambe le lettere in G. Cheda, L’emigrazione ticinese in California, Dadò 1981).
Per saperne di più
- New York, Guida verde Michelin
- New York Washington, Touring Editore
- New York City, Lonely Planet
- New York, Meridiani, dicembre 2010