Cambogia

L'estasi davanti ai templi di Angkor

Davanti ai templi si rimane senza parole per la loro imponenza, per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano, per l’armonia con la foresta che li ospita, per i canti degli uccelli, per gli indimenticabili tramonti. A Phnom Penh conosciuta un tempo come perla dell’Asia. La sua fama fu offuscata negli anni Settanta dal governo dei Khmer Rossi, le cui «purghe» causarono 2 milioni di morti. La storia di Beat Richner, l’angelo svizzero pediatra in Cambogia.
Giò Rezzonico
01.02.2012 12:00

Itinerario

(febbraio 2012)

  • 1° giorno Milano - Bangkok
  • 2° giorno Bangkok - Chiang Rai - Chiang Khong - Huay Xay
  • 3° giorno Navigazione da Huay Xay a Pakbeng
  • 4° giorno Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
  • 5° giorno Luang Prabang
  • 6° giorno Luang Prabang
  • 7° giorno Vientiane - Phnom Penh
  • 8° giorno Phnom Penh - Sambor Prei Kuk - Siem Reap (Angkor)
  • 9° giorno Siem Reap (Angkor)
  • 10° giorno Siem Reap (Angkor) - Bangkok - Milano

 

Durata del viaggio: 10 giorni

Operatore turistico: Kel12

  

  

 

  

Potete aver visitato qualsiasi angolo del mondo, ma davanti ai templi di Angkor in Cambogia rimarrete estasiati. Per la loro imponenza, per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano, per l’armonia con la foresta che li ospita trasformatasi a sua volta in grande artista e architetto quando le radici dei suoi alberi abbracciano questi monumenti secolari, per i canti degli uccelli, per gli indimenticabili tramonti. Per poter vivere tutte queste emozioni vale la pena di recarsi all’alba sui siti archeologici, quando ancora non sono invasi dai turisti, taluni ahimè rumorosi. E non sottovalutate l’ampiezza del sito. Checché ne dicano le agenzie di viaggio dedicare un solo giorno ad Angkor è davvero troppo poco!

Visitando la Cambogia (13,5 milioni di abitanti) non può non sorprendere il forte contrasto tra gli splendori del passato e la dura realtà del presente. L’orgoglio per i grandi fasti imperiali, dopo gli anni bui dei Khmer Rossi, è fortissimo e Angkor è diventata il simbolo dell’identità nazionale, per cui la si vede rappresentata ovunque: sulla bandiera, sulle lattine della birra nazionale, sulle sigarette, così come sulle insegne di molti alberghi.

 

Marco Polo ci racconta

«C’era una torre d’oro, in cima alla quale dorme il re. Secondo gli abitanti di questo Paese, dentro questa torre vi è un Genio, dalla forma di serpente a nove teste, che è il vero signore di tutto il regno…». Così descriveva Angkor nel 1296 il diplomatico cinese Chou Ta-kuan. E pensare che a quei tempi l’impero khmer era già in fase di decadenza. Nei due secoli precedenti era arrivato a dominare quasi l’intera area dell’Indocina e nel 1285 era stato visitato da Marco Polo. «Sappiate – scriveva il mercante veneziano ne «Il Milione» – che 'quel regno non si può maritare neuna bella donzella che non convegna che ‘l re la provi, e se li piace,  sì la tiene, se no, sì la marita a qualche barone. E sì vi dico che negli anni Domini 1285, secondo ch’io Marco Polo vidi, quel re avea 326 figliuoli, tra maschi e fimine, chè ben n’a 150 da arme. In quel regno à molti elefanti, e legno aloe assai, e ànno molto del legno onde si fanno li calamari», cioè l’ebano.

 

Le lontane origini della civiltà di Angkor

L’impero khmer non nacque certo di colpo o per miracolo, ma fu il punto di arrivo di una lunga serie di eventi. Ben prima del IX secolo, infatti, in questa zona esistevano già diversi regni alquanto potenti. A Sambor Prei Kuk, tra Phnom Penh e Angkor, si possono visitare le imponenti testimonianze monumentali immerse nella foresta dell’antica capitale di uno di questi regni, quello dei Chenla.

Ma è solo a partire dal IX secolo che accadde qualcosa di completamente nuovo, quando un sovrano di nome Jayavarman II («varman» significa protettore) fondò una nuova capitale nei pressi dell’attuale Angkor, si proclamò dio-re e creò un nuovo culto imperniato sull’adorazione del sovrano divinizzato. Nasceva così la dinastia che avrebbe portato alla costituzione del più grande impero che il sud-est asiatico continentale abbia mai conosciuto, lasciando ai posteri quella straordinaria eredità costituita dai templi di Angkor. Un impero che affondava storicamente le sue radici nella cultura indiana, sia per quanto attiene alle pratiche religiose, sia all’organizzazione del regno. I cambogiani accolsero dapprima la religione induista per poi passare al buddismo. Nei monumenti di Angkor queste due religioni convivono una accanto all’altra.

La chiave di successo di questo impero fu legata alla capacità di sfruttare l’acqua edificando un sofisticato sistema idrico che permise agli antichi khmer di governare gli elementi naturali. Lo sviluppo del regno alternava momenti di grande prosperità e di unione ad altri di caos e di lotte interne. Gli antichi sovrani-divinità s’impegnarono uno dopo l’altro a costruire templi che superassero quelli dei loro predecessori per dimensioni, ornamenti e armonia simmetrica. Tutte queste opere sono giunte a noi, ad iniziare dall’Angkor Wat, considerato il più imponente edificio sacro al mondo. L’uomo che portò l’impero all’apice della sua gloria e introdusse la religione buddista nell’impero fu Jayavarman VII (regno 1181-1219), il più grande sovrano di Angkor, considerato una sorta di eroe nazionale, la cui immagine è oggi onnipresente in Cambogia. Fu lui l’artefice dell’edificazione della città sacra di Angkor Thom, una delle mete principali dei tre milioni di turisti che ogni anno visitano questi siti archeologici. La civiltà di Angkor gli sopravvisse per più di due secoli, ma dopo Jayavarman VII iniziò il declino: non venne più edificato alcun monumento in pietra ed è come se con lui si fosse esaurita la vena creatrice del popolo khmer. Sovrani sempre più inetti salirono al potere e trascurarono la manutenzione del sistema idrico che rendeva la terra fertile e l’agricoltura rigogliosa.

 

Una città abbandonata per secoli alla giungla

L’impero khmer durò oltre 600 anni, dall’801 al 1432 (invasione thai), ma ebbe soltanto quattro secoli di splendore. I templi tramandati fino ai nostri giorni risalgono infatti  a un periodo che va dal IX al XII secolo. Abbandonati alla giungla per secoli furono riscoperti dai francesi nella metà dell’Ottocento e saccheggiati da eserciti e tombaroli. Considerati tra i più importanti siti archeologici al mondo, affascinano il visitatore per le imponenti dimensioni, per la qualità architettonica e per le splendide decorazioni (bassorilievi). 

Le centinaia di templi tuttora esistenti non costituiscono però che lo scheletro sacro del vasto centro politico, religioso e sociale, perché si riteneva che soltanto gli dèi potessero dimorare in strutture di mattoni o in pietra. Attorno ad essi sorgevano abitazioni, edifici pubblici e palazzi costruiti in legno e ormai scomparsi. Si pensa che la capitale del regno avesse oltre un milione di abitanti, quando Londra non contava che 50 mila anime. Come dicevamo, le dimensioni sono imponenti. Angkor Wat era circondato da un fossato colmo d’acqua largo 190 metri che racchiudeva un gigantesco rettangolo di 1,5 per 1,3 chilometri di lato. Angkor Thom aveva dimensioni ancora più rilevanti: raggiungeva i 10 chilometri quadrati di superficie. Il fossato era largo 100 metri e circondava un muro di cinta alto 8 metri e lungo 12 chilometri. Gli edifici erano costruiti in arenaria proveniente da una cava lontana 50 chilometri. Le pietre venivano trasportate su enormi zattere via acqua. I monumenti svolgevano al tempo stesso funzione di tempio funerario, che ospitava le ceneri del re defunto, e di tempio di culto consacrato a Visnù, la divinità indù con la quale il sovrano si identificava. Le cittadelle rappresentavano una riproduzione in miniatura dell’universo e una sorta di luogo di transito attraverso il quale l’essere umano raggiungeva la dimora degli dèi.

Oltre ai monumenti citati, che sono i più importanti, se ne possono visitare molti altri nelle vicinanze. Particolarmente suggestiva la «cittadella delle donne», costruita in arenaria rosa e nota per i suoi delicatissimi bassorilievi.

 

Phnom Penh, «perla dell’Asia»

Conosciuta un tempo come la «perla dell’Asia» la sua fama è stata offuscata negli anni Settanta dalla triste ombra di una guerra civile particolarmente cruenta che ha causato oltre 2 milioni di morti. Tanti quanti sono oggi gli abitanti di questa città, completamente distrutta nel 1772 dai thailandesi e in seguito ricostruita. Oggi Phnom Penh, capitale della Cambogia sin dall’inizio del XV secolo, dopo la caduta dell’impero khmer, si presenta come una metropoli in transizione tra una certa nostalgia per il passato e il caos di una città moderna. L’impronta del periodo coloniale francese (1863-1954) è ancora molto presente, soprattutto nel centro città. A quell’epoca risalgono i due edifici di maggiore interesse turistico: il palazzo reale, costruito su ispirazione di quello di Bangkok, e il museo nazionale. 

Il palazzo reale reinterpreta un’architettura tipica cambogiana. È balzato spesso alla ribalta della cronaca alla fine del XX secolo, in quanto sede di quel re Sihanouk, ultimo dio-re del paese, famoso in gioventù per le sue prodezze amatorie e personaggio dal passato politico camaleontico, che è riuscito a salvare la monarchia nonostante tutte le tempeste attraversate dal suo paese. Statista di livello internazionale, generale, presidente, regista cinematografico (ha realizzato una trentina di film) è amato e considerato il padre della nazione da molti cambogiani, «ma per altri è l’uomo che ha tradito alleandosi con i Khmer Rossi. Per molti versi – commentano gli autori della guida Lonely Planet – le sue contraddizioni corrispondono a quelle della Cambogia contemporanea».

Il Museo nazionale di Cambogia racchiude alcuni fra i più significativi e rimarchevoli tesori dell’arte khmer. La visita è un passo preliminare indispensabile per meglio comprendere e apprezzare sia l’arte figurativa di Angkor, caratterizzata da uno stupefacente realismo, sia quella del periodo precedente.

 

Un angelo svizzero pediatra in Cambogia

Quando la nostra guida cambogiana a Siem Reap, la città che custodisce le meraviglie di Angkor, ci ha mostrato l’ospedale pediatrico gestito dal medico elvetico Beat Richner mi sono sentito orgoglioso della mia nazionalità. Si dice che in questo istituto e in altri quattro che fanno parte della stessa organizzazione ogni settimana vengano strappati alla morte oltre 3 mila bimbi. Gli ospedali sono sovvenzionati dallo Stato, ma per la maggior parte sono sostenuti da donazioni estere, molte delle quali provenienti dal nostro paese. Per finanziare la sua attività questo estroverso medico svizzero recentemente scomparso, teneva ogni sabato sera un concerto. La sua grande passione era infatti il violoncello. Questo hobby gli ha procurato il soprannome di Beatocello, che scaturisce dall’unione del nome di battesimo con quello del suo amato strumento musicale.

Beat Richner era arrivato in Cambogia una prima volta nel 1974 come volontario, ma poi aveva dovuto lasciare il paese in seguito alla presa del potere da parte dei Khmer Rossi, che durante la loro dittatura avevano sterminato il 91 per cento dei medici cambogiani. Dopo la caduta di questo governo del terrore, nel 1991 il re Sihanouk aveva proposto a Beatocello di tornare in Cambogia per ricostruire l’ospedale in cui aveva lavorato, che nel frattempo era andato distrutto. Il medico confederato aveva accettato la nuova sfida. Nel giro di vent’anni gli istituti sanitari sono diventati cinque, dove viene curata la maggior parte dei bimbi del paese. Tutti i servizi sono gratuiti e lo staff medico è quasi totalmente cambogiano. Una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza di Beat Richner in Cambogia consiste nel livello di alta qualità della medicina, considerato eccessivo e «non sostenibile» da varie organizzazioni internazionali, secondo le quali lo standard sanitario dovrebbe corrispondere alla realtà economica del paese in cui si opera. «La nostra è una medicina corretta, non di lusso, obiettava il pediatra elvetico. Cinque studi internazionali, effettuati in 100 diversi paesi – proseguiva – attestano che a livello mondiale i nostri ospedali hanno la migliore relazione tra costi e guarigione». Nelle case di cura di Beatocello un’ospedalizzazione media aveva una durata di 5 giorni e costava 240 dollari. 

Un’altra grande sfida dell’esperienza di Beat Richner consisteva nel tenere lontana dai suoi centri la corruzione, che costituisce una delle maggiori piaghe della Cambogia. Mi spiegava un cambogiano incontrato durante il viaggio che l’«iniziazione» a questo cancro della società comincia sin dai primi anni di scuola. Siccome gli insegnanti sono pagati molto poco (meno di 100 dollari al mese) pretendono dagli allievi una piccola somma diaria che permette loro di arrotondare lo stipendio. La stessa cosa avviene per le cure mediche pubbliche, dove per essere curati bisogna foraggiare infermieri e dottori. Niente di tutto questo avveniva nei cinque ospedali del pediatra elvetico, che si ispirava agli stessi principi sociali su cui si fondava quasi mille anni fa la politica sanitaria estremamente innovativa del più grande sovrano che abbia mai avuto la Cambogia: Jayavarman VII, il quale governò il paese dal 1181 al 1219, nel periodo di maggiore grandezza dell’impero Khmer (IX-XIII). «Tutte le creature – si legge nel suo «Editto degli ospedali» – che sono immerse nell’oceano delle sofferenze, possa io trarle fuori attraverso la virtù di questa buona opera (gli ospedali gratuiti). Possano tutti i re della Cambogia, attaccati al bene, che proteggeranno la mia fondazione, raggiungere con la loro discendenza, le loro mogli, i loro mandarini, i loro amici, il soggiorno della liberazione in cui non vi è più malattia. Il sovrano è colui che soffre delle malattie dei suoi sudditi più che per le sue: infatti è il dolore pubblico che fa il dolore dei re e non il loro stesso dolore». 

Una concezione della socialità che purtroppo non trova riscontro nella Cambogia dei nostri tempi.

  

  

Per saperne di più

  • Cambogia, Lonely Planet, Torino 2011
  • Cambogia, Polaris, Firenze 2008
  • Vietnam-Cambogia, Meridiani n° 145, Milano 2006
  • Cambogia, Guide Ulysse Moizzi, Milano 2011
  • Angkor, National Geographic, Torino 2006
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