Lontano dalla globalizzazione
Itinerario
(ottobre 2009)
- 1° giorno Milano – Roma – Bangkok
- 2° giorno Bangkok – Yangon
- 3° giorno Yangon
- 4° giorno Yangon – Kyaing Tong
- 5° giorno Kyaing Tong: i villaggi dello Stato Shan
- 6° giorno Kyaing Tong: i villaggi dello Stato Shan
- 7° giorno Kyaing Tong – Heho – Lago Inle
- 8° giorno Lago Inle: escursione a Inn Thein
- 9° giorno Lago Inle: escursione a Sagar
- 10° giorno Lago Inle – Heho – Mandalay
- 11° giorno Mandalay: escursione ad Amarapura ed Ava
- 12° giorno Mandalay – Mingun – Mandalay – Bagan
- 13° giorno Bagan
- 14° giorno Bagan – Monte Popa – Bagan – Yangon
- 15° giorno Yangon – Bangkok – Milano
- 16° giorno Milano
Durata del viaggio: 16 giorni
Operatore turistico: Kel 12
«È con la cultura che si innesca il progresso, perché senza di essa l’uomo è condannato a vedere nell’altro sempre e solo un nemico». Questa frase del sociologo algerino Khaled Fouad Allam, mi sembra spieghi bene il senso del viaggiare e soprattutto di un viaggio in Birmania, un paese che non è ancora stato colonizzato dalle mode straniere e che ha salvaguardato una propria identità, la «birmanità». È questo il motivo principale per cui vale la pena di visitare la Birmania. Per percorrere l’itinerario qui descritto sono necessarie almeno tre settimane. Gli spostamenti più lunghi avvengono in aereo, perché le strade sono piuttosto disastrate e pertanto richiederebbero tempi di percorrenza eccessivamente lunghi.
Per chiarezza suddivideremo questo lungo diario di viaggio in quattro capitoli, che corrispondono anche alle tappe principali del nostro itinerario. La nostra visita al Myanmar inizia subito con un sogno ad occhi aperti: la Pagoda Shwedagon a Yangon, che da sola vale il viaggio. Raggiungiamo in seguito in volo le montagne del cosiddetto «Triangolo d’oro» tristemente note per le piantagioni di papavero, da cui si ricava l’oppio. La zona è ideale per effettuare trekking e visitare villaggi montani molto isolati. La tappa successiva riguarda le città imperiali con la visita di Bagan, uno dei momenti più emozionanti del viaggio. Fu sede del primo impero e di un periodo d’oro che si protrasse per due secoli: dalla metà dell’anno Mille alla fine del XIII secolo. Proseguiamo quindi in aereo per la regione di Mandalay, dove visiteremo altre città imperiali. L’ultima tappa del viaggio è al Lago Inle, dove in barca si scopre un incantevole mondo fluttuante.
Un paese, molte etnie
La maggioranza degli abitanti lavora ancora la terra. Nonostante la capitale superi i 5 milioni di abitanti, nel Myanmar il fenomeno di migrazione di massa verso le città è ancora relativamente limitato. La vasta pianura centrale con il suolo più fertile del paese solcato dalle acque del fiume Irrawaddy, lungo oltre duemila chilometri, è sempre stata dominata dal gruppo che nelle varie epoche si è rivelato il più forte: i Bamar o Birmani, che con il 68 per cento costituiscono la maggioranza della popolazione. Si ritiene siano migrati anticamente dall’Himalaya e già nell’XI secolo dominavano buona parte del territorio dalla loro capitale Bagan, una delle meraviglie di questo paese. In Myanmar gli etnologi riescono a distinguere ben 135 gruppi etnici differenti, mentre una ricerca fatta negli anni Quaranta aveva recensito 242 lingue e dialetti diversi. Tutti questi popoli si sono stanziati lungo il fiume Irrawaddy, sovrapponendosi gli uni agli altri senza però mai meticciarsi completamente e conservando ognuno le proprie identità culturali e linguistiche. L’orgoglio e i pregiudizi tra le varie etnie della Birmania sono spesso causa di tensioni, tanto che una delle maggiori difficoltà incontrate dai vari governi che si sono succeduti alla guida del paese è sempre consistita nel mantenere la pace, la stabilità e l’unione.
Grande senso dell’ospitalità
Contrastano con questa litigiosità interna la gentilezza e il senso di ospitalità verso il turista. In città, come in campagna o nei villaggi di montagna, la gente vi invita a partecipare alla sua quotidianità, senza farvi mai sentire estranei. A Yangon, durante la visita a una pagoda a cui è annessa la facoltà di teologia, nella mensa dell’università una famiglia facoltosa di commercianti offriva il pranzo ai monaci (è una consuetudine in questo paese). Non appena ci hanno visti, ci hanno invitati a sederci per condividere il pasto con loro. Poco distante, mentre visitavamo un monastero per i novizi (ogni giovane buddista trascorre alcune settimane o mesi in un monastero) dove si teneva un’importante cerimonia, siamo stati invitati a partecipare. Il ricco commerciante che offriva doni a un folto gruppo di novizi orfani ci ha chiesto di distribuire i doni assieme a lui. Così come sulle montagne, quando vi accostate a una casa dove stanno festeggiando una ricorrenza vi invitano ad entrare e vi offrono il loro distillato di riso, molto simile alla nostra grappa. Noi, poco abituati a questo tipo di ospitalità, rimaniamo commossi da tanta generosità, comune a tutte le etnie che popolano questo paese vasto due volte l’Italia, ma con più o meno lo stesso numero di abitanti: circa 60 milioni.
LA PAGODA SHWEDAGON A YANGON VALE IL VIAGGIO
«Ritengo non vi sia nulla di così stupefacente al mondo» commentava Ralph Fitch, il primo inglese a raggiungere il Myanmar nel 1558. «È un mistero dorato sull’orizzonte, una meraviglia che splende nel sole», aggiungeva Kipling nelle sue «Lettere dall'Oriente» pubblicate nel 1889. Sir Somerset Maugham descrisse invece la pagoda «come un’improvvisa speranza nelle tenebre dell’anima». Non c’è davvero nessuna esagerazione in questi autorevoli pareri. Avevo letto di questo monumento prima di partire, ma la mia immaginazione non era andata tanto lontano. Quando arrivate lassù su quella vastissima piattaforma (280 per 220 metri) è come guardare in un magico caleidoscopio: davanti a voi un immenso stupa a forma di cono e ovunque volgete lo sguardo trovate una miriade di tabernacoli, tempietti, statue di Buddha e altre divinità, immagini di animali, edicole e decine di altri stupa di tutte le dimensioni. Visibile da qualsiasi punto della città, questo monumento ne è diventato il simbolo e da solo vale il viaggio in Myanmar. È uno dei luoghi buddisti con maggior significato religioso e ogni birmano spera di visitarlo almeno una volta nella sua vita. I pellegrini si radunano qui per pregare, per incontrarsi e per assaporare la pace incredibile che si sprigiona in questo luogo.
Secondo la leggenda, questo tempio avrebbe 2500 anni, ma secondo gli archeologi risale invece a un’epoca tra il VI e il X secolo. Ha subito l’impeto di ben otto terremoti. Il più violento, nel 1768, comportò un importante restauro che ce lo ha consegnato così come lo vediamo oggi.
Ho voluto visitarlo più volte per ammirarlo con le varie luci del giorno e della notte e non avrei mai voluto andarmene. Sarei rimasto lì per ore ad osservare la gente raccolta in piccoli gruppi a pregare o in meditazione, la magia di quei templi e dei loro tetti che si stagliano nel cielo. Ho avuto la fortuna di essere presente la notte in cui si celebra la festa delle luci. Gli ori dei templi, illuminati da una miriade di candele in contrasto con il blu scuro della notte sono diventati ancora più scintillanti. È stato uno spettacolo commovente. Molte famiglie sistemavano una stuoia sul pavimento e si preparavano per trascorrere la notte sotto la luna piena. Arrivava sempre più gente. Nessuno beveva, nessuno spingeva. Quando ci guardavano sorridevano e noi non ci sentivamo intrusi, ma partecipi di quella festa indimenticabile!
SULLE MONTAGNE DEL TRIANGOLO D’ORO
Da Yangon volo a Kyaing Tong nello Stato Shan al nord-est del paese vicino al confine con la Thailandia. I voli interni non sono diretti, ma fanno scalo nelle varie località. Chi è arrivato a destinazione scende, chi prosegue rimane a bordo: come sul bus. Osservando il paesaggio dall’alto noto che le strade sono pochissime e i villaggi pure. Il fattore di principale richiamo della valle dove siamo diretti e che si trova a 1200 metri di altitudine, è rappresentato dal suo estremo isolamento (si registrano 30 abitanti per chilometro quadrato). È meta ideale per brevi trekking nei villaggi molto distanti tra loro e popolati da tribù Shan. Un’etnia dal punto di vista etnico, culturale e linguistico molto affine alla popolazione thailandese che vive oltre confine. Questa terra è ricchissima: abbondano oro, argento, zinco, pietre preziose, piombo, ferro. Si tratta di una zona aperta al turismo solo a partire dal 2004. Lo forti spinte autonomiste sono state represse, dapprima con le armi e poi concedendo a questa regione uno statuto speciale. Si tratta di una zona calda perché situata nel cosiddetto «Triangolo d'oro», tristemente noto per le piantagioni di papavero da cui si ricava l’oppio. Oggi la produzione di questa sostanza nel Myanmar è notevolmente diminuita, perché ufficialmente proibita. Si sa però che in queste zone il papavero viene ancora coltivato.
Nei villaggi abitati dagli Shan
La popolazione Shan vive di agricoltura ed è storicamente suddivisa in tribù, con costumi e idiomi molto diversi tra loro. Luogo ideale per rendersi conto di questa varietà è il mercato di Kyaing Tong, che attira dalle colline circostanti un coloratissimo afflusso di etnie, merci e artigianato della regione. La guida locale che ci accompagna sulle montagne, acquista cibo, medicine naturali e shampoo da portare in omaggio agli abitanti dei villaggi. Si è dimostrata una buona idea perché nessuno ci ha chiesto soldi e tutti erano molto soddisfatti. Più le nostre mete sono lontane da Kyaing Tong e dalle rare strade, più sono interessanti, perché poco frequentate dai pur pochi turisti che visitano questa zona. Visitando questi villaggi, salendo un dislivello di alcune centinaia di metri, si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. Le capanne in cui vive la popolazione hanno la struttura in legno di bambù e le pareti di paglia e fogliame. Sono solitamente costruite su palafitte e non lontano, ben sollevato da terra c’è il deposito per il riso. All’interno, il locale di lavoro e di soggiorno è separato da quello dove si dorme. Nella tribù Akha, di religione animista, uomini e donne dormono in spazi separati e non hanno diritto di avere rapporti sessuali in casa. I numerosi animali da cortile – cani, maiali, galline, oche, eccetera – vivono al suolo e «passeggiano» indisturbati per le vie del borgo. Un’abitazione importante, nei villaggi animisti, è quella dello stregone, dal quale ci si reca per tenere a bada gli spiriti. In qualche paesino meno discosto si notano anche rarissime case in muratura. Sono considerate le residenze dei ricchi: solitamente commercianti di prodotti agricoli o di oppio.
Religioni a confronto
Il discorso sulla religione è alquanto complesso. In un villaggio sperduto su una montagna abbiamo trovato tre «quartieri»: uno buddista, uno cristiano e uno animista. La convivenza evidentemente è possibile, ma sembra non risulti sempre facile, perché queste tre religioni hanno credi profondamente diversi. In Myanmar anche i buddisti più praticanti amano Buddha, ma temono i cosiddetti Nat. Storicamente ogni Nat incarnava lo spirito di qualche celebre e leggendario personaggio storico, morto generalmente in modo drammatico. Moltissime pagode propongono le statue dei Nat, ai quali i fedeli chiedono conferme e favori. Normalmente nei paraggi di ogni villaggio si trova una scuola, ma i genitori di religione animista spesso non permettono ai loro figli di frequentarla perché considerano lo studio una perdita di tempo. I giovani maestri, prima di poter insegnare in città, devono fare un’esperienza di alcuni anni in villaggi discosti. Abbiamo visitato più di una scuola e siamo sempre stati accolti con interesse.
Tradizioni locali
Gli abiti variano di villaggio in villaggio. Gli uomini non vestono il «longyi», ma pantaloni molto larghi e una casacca scura. Assai più spettacolare e colorato è l’abbigliamento delle donne, che portano copricapi molto originali tramandati spesso di generazione in generazione. Ogni villaggio che si rispetti ha poi un luogo dove si distilla il riso. Queste tribù sono spesso in festa, soprattutto in coincidenza con le notti di plenilunio. A Kyaing Tong abbiamo assistito a un’affollatissima festa con canti, balli e lotterie. A un certo momento il cielo si è illuminato con una miriade di lanterne che volteggiavano nell’aria in direzione della luna piena. Uno spettacolo suggestivo e indimenticabile!
LE CITTÀ IMPERIALI
L’appuntamento è per le 5.30 alla reception. Il bussino attende puntuale. Ci trasporta in una zona di campagna. Quando arriviamo alla nostra meta, i tre teloni che una volta gonfiati si trasformeranno in altrettante mongolfiere sono ancora distesi inermi sul terreno. I cestelli in vimini che ci ospiteranno sono pronti. I comandanti inglesi pure. Uno stuolo di inservienti si apposta attorno ai teloni, che vengono velocemente gonfiati con aria calda e poi, quando sono quasi su, con idrogeno a suon di boati di gas. Ci fanno salire. Siamo pronti per partire. Il sole si affaccia timidamente all’orizzonte. Non avevo ancora visto Bagan, perché ero arrivato in aereo di notte. La mongolfiera sale dolcemente e lo spettacolo che appare ai miei occhi è indescrivibile. Avevo letto moltissimo su quel luogo, patrimonio mondiale dell’Unesco, ma è ancora più straordinario di quanto mi aspettassi.
La magia di Bagan
Una miriade di monumenti religiosi attorno a noi – sembra siano più di 3 mila in un territorio di 40 chilometri quadrati – appare lentamente illuminata dai primi tenui e caldi raggi dell’alba. Sembrano appartenere alla natura più che all’umanità. Costruiti in mattoni con lo stesso colore della terra hanno un aspetto profondamente mistico, ma non sembrano edifici. Lassù capisco cosa intendeva Eugenio Montale quando affermava che «bisogna andare in Oriente, vera sede delle religioni, per capire cos’è la religione».
Durante la giornata visitiamo i monumenti principali, quelli che sono stati di modello per l’architettura buddista in Birmania. Verso sera, all’ora del tramonto, saliamo su un calesse e ci inoltriamo in quelle stradine sterrate di campagna che il mattino avevamo visto dall’alto. Visitiamo i monumenti meno nobili, quelli che non hanno influenzato la storia dell’arte, ma che ci commuovono per la loro spontaneità. I raggi del tramonto, tinteggiandoli di rosso-viola li rendono ancora più suggestivi. La storia, la brama, il potere. Non resta più nulla, solo questi gusci vuoti di infinita bellezza e romanticismo, che si sono conservati per secoli grazie al clima secco. Quelle immagini mi rimarranno dentro per sempre! È questo certamente uno dei posti più belli che ho visitato nella mia vita!
Il periodo d’oro del primo impero
Il periodo d’oro di Bagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawrahta nel 1044 e si concluse nel 1287 con l’invasione dei Mongoli condotti da Kublai Khan. Appena salito al trono Anawrahta intraprese immediatamente un grandioso programma edilizio: alcuni tra i più significativi edifici di Bagan risalgono al periodo del suo regno. In particolare la stupenda Shwezigon Paya, considerata il prototipo di tutti i successivi stupa (tipici monumenti buddisti in forma conica) birmani, oppure l’Ananda Pahto, un’altra meraviglia con i suoi corridoi ricchi di nicchie contenenti innumerevoli immagini del Buddha. Anche dopo la morte del primo sovrano i suoi successori proseguirono a sviluppare pressoché ininterrottamente il paese durante tutto il periodo d’oro di Bagan. «Alla fine di 15 giorni di viaggio – scrive Marco Polo nel suo «Il Milione» - arrivai in una città chiamata Mein (antico nome di Bagan) grandiosa e splendente, la capitale del regno». È difficile immaginare come fosse in passato perché, come altre città reali birmane, soltanto gli edifici religiosi più importanti furono costruiti con materiali destinati a durare nel tempo. I palazzi dei re furono invece edificati in legno, così come quasi tutti i monasteri. Quello che oggi rimane non è dunque che una pallida ombra del passato splendore.
La città di Bagan custodisce inoltre la raccolta più imponente di pitture murali del sud-est asiatico, con affreschi datati fra l’XI e il XIV secolo. Secondo gli studiosi, in quel periodo, tutti i templi della città erano riccamente decorati al loro interno e sulle volte, con soggetti didattici che cercavano di spiegare ai fedeli l’essenza della dottrina buddista.
Il secondo e il terzo impero
Per i duecento anni che seguirono la caduta di Bagan, la Birmania rimase frammentata nel caos di guerre etniche o tribali. Il secondo impero nacque nel XVI secolo, ma ebbe breve vita. Ad esso seguì un altro periodo confuso. Il terzo impero risale invece alla metà del XVIII secolo e durò fino all’inizio della dominazione coloniale inglese (1824), che occupò a tappe le varie regioni del paese nel giro di una sessantina di anni. Durante il periodo del terzo impero diverse capitali si sono succedute alla guida del paese: Mandalay, Amarapura, Ava, Mingun e Sagaing. Si affacciano tutte sul fiume Irrawaddy (lungo più di 2 mila chilometri), distano pochi chilometri una dall’altra e sono oggi praticamente tutte conglobate nella città di Mandalay, secondo centro del paese, con oltre 1 milione di abitanti.
Ogni volta che il re, dopo aver sentito il parere degli astrologi, spostava la sua residenza, il palazzo reale costruito in legno veniva smantellato e riassemblato nella nuova località. Lo stile dell’architettura reale in Myanmar rimase lo stesso per secoli.
Mandalay, con il suo traffico caotico dove le biciclette e le motorette hanno il sopravvento sulle automobili, è turisticamente interessante, ma i suoi dintorni lo sono anche più.
Ava, un isolotto sul fiume Irrawaddy
Il luogo più suggestivo è forse costituito da Ava, probabilmente perché distaccata dall’agglomerato urbano: si trova infatti su una sorta di isolotto attorniato dalle acque del fiume principale del paese. La si visita a bordo di sgangheratissmi calessi trainati da bronzini, che si spostano a fatica sulle strade sconnesse e sterrate. Offre due perle. All’interno di Bagaya Kyaung, un monastero ottocentesco fresco e buio, costruito in legno di tek, si respira un’atmosfera assai suggestiva che richiama alla mente tempi lontani. Perfettamente conservato è un altro monastero (Menu Ok Kyaung) in mattoni, abbandonato nella natura. Sembra che i monaci non vogliano abitarlo per la sua storia tragica e tribolata.
Il ponte in tek di Amarapura
Vicinissima ad Ava è la città imperiale di Amarapura, celebre soprattutto per il suo trafficatissimo ponte di 1200 metri considerato il più lungo al mondo realizzato in legno di tek. Un’altra attrattiva di questa antica città reale è il famoso monastero Mahāgandhāyon, che ospita oltre mille monaci. È permesso assistere ai preparativi e al pranzo dei monaci. I turisti accalcati all’entrata impugnano gli apparecchi fotografici per attendere i monaci che entrano ordinatamente nella mensa in fila indiana. Anch’io scatto qualche immagine, ma mi sento fuori posto e mi vergogno di essere turista. Non siamo mica alla fossa degli orsi a Berna o allo zoo per assistere al pasto degli animali…
Il tempio incompiuto di Mingun
Una splendida passeggiata di un’ora in barca porta invece a Mingun. Lungo le rive del fiume la vita scorre lentamente. Alcune donne coltivano campi di riso, altre caricano imbarcazioni di sabbia utilizzata per le costruzioni in città, i pescatori vivono in capanne improvvisate. Tutte queste attività vengono cancellate durante la stagione delle piogge quando il livello del fiume sale di due o tre metri. Incrociamo immense zattere di bambù trainate da mezzi a motore. Ci spiegano che il trasporto di questo importante materiale con cui è costruita la maggior parte delle case rurali avviene via fiume.
Giunti a Mingun, come avviene in tutte queste città imperiali, uno stuolo di bellissimi bimbi attende i turisti e insistentemente offre loro oggetti di pessimo gusto.
Il tempio più famoso del luogo, Mingun Paya, è incompleto. Sarebbe stato il più grande del mondo se il re Bodawpaya non fosse morto prima di portarlo a termine. Avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 150 metri, mentre si è fermato a quota 50, ma da lassù la vista sul fiume e su innumerevoli stupa immersi in una vegetazione foltissima è splendida. Lo stesso re megalomane è comunque riuscito a far costruire una campana in bronzo di 90 tonnellate, considerata la più grande ancora in esercizio al mondo.
I 700 monasteri di Sagaing
Dall’altra parte del fiume rispetto a Mandalay è la deliziosa Sagaing, che ospita 700 monasteri. Luogo di residenza di 6 mila fra monaci e monache, sembra sia la città dove si recano i buddisti birmani quando sono stressati. Oggi questa mistica collina, dove da lontano si vede spuntare una miriade di stupa dorati, è nota soprattutto come centro religioso.
Tutte queste città imperiali che ho appena descritto si possono ammirare se il tempo è bello e l’aria tersa dal Mandalay Hill, la splendida collina posta a 230 metri di altezza, da cui si domina la piattissima pianura sottostante solcata dal fiume Irrawaddy.
Mandalay, capitale religiosa
Il gioiello di Mandalay era costituito dalla cittadella reale che ospitava oltre un centinaio di palazzi, circondata per 3 chilometri da un’immensa cinta muraria alta 8 metri e protetta da un fossato largo 70 metri. Nel marzo del 1945, durante un violento combattimento fra le truppe anglo-indiane e le forze giapponesi, i palazzi reali hanno preso fuoco e sono andati quasi completamente distrutti. Oggi si visita la discutibile ricostruzione di uno di questi palazzi, quello del penultimo re birmano Shwenandaw, mentre la cittadella è chiusa ai turisti.
In questa regione vive il 60 per cento dei monaci di tutto il paese e in effetti Mandalay è famosa per due monumenti buddisti di grande significato. Il primo è Mahamuni Paya, uno dei siti religiosi più importanti del paese per la sua statua del Buddha alta 4 metri. Realizzata in bronzo, nel corso degli anni migliaia e migliaia di devoti l’hanno quasi sfigurata ricoprendola di foglie d’oro, che formano uno strato spesso 15 centimetri. Come a tutti i monumenti principali del paese, vi si accede da un lungo corridoio coperto, ai lati del quale è allineata una miriade di bancarelle che propongono ai pellegrini oggetti da offrire ai monaci.
Frequentatissima dai pellegrini a Mandalay è anche la Kuthodaw Paya, secondo monumento mistico di grande importanza, spesso definita il libro più grande al mondo. Attorno allo stupa principale sono state disposte 729 lastre di marmo, ciascuna conservata in un piccolo stupa, sulle quali sono incisi i testi dei 15 libri che compongono il Tripiṭaka, le scritture buddiste classiche.
IL LAGO INLE, UN MONDO
Arriviamo al Lago Inle all’ora del tramonto, dopo un breve spostamento in aereo. Una barca lunga e stretta, che sarà il nostro mezzo di trasporto per i prossimi giorni, ci sta aspettando per portarci all’albergo. Il sole è ormai basso sull’orizzonte e il cielo assume tutte le sfumature dal rosso all’arancione, che si specchiano sull’acqua ferma. I contadini sulle loro barche piatte stanno remando per tornare dagli orti galleggianti alle loro case a palafitta nei villaggi. Qualche pescatore si attarda. La sua immagine allungata si riflette sulla superficie dell’acqua. Sembra un paesaggio irreale. È questa la prima immagine del Lago Inle, che è un mondo a sé.
Una società fluttuante
Situato a circa 900 metri di altezza e delimitato da due catene montuose il lago, di una bellezza incomparabile, è lungo solo 22 chilometri e largo 11, ma da esso si dirama una vastissima ragnatela di canali navigabili. È famoso per il suo stile di vita. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. La popolazione vive di agricoltura, di artigianato e di pesca. I prodotti della terra, i preziosi tessuti in seta e in fibra di loto vengono «esportati» in tutto il paese, mentre i bottini dei pescatori sono consumati sul posto. In birmano «in» significa lago, mentre «le» vuol dire quattro. In effetti i primi documenti risalenti al 1637 parlano di quattro villaggi. Oggi sulle rive se ne affacciano una quarantina, abitati complessivamente da 70 mila persone. Ma l’intera regione, se si include chi abita sulla terraferma ma vive del lago, ne conta 130 mila.
Secondo la leggenda, nel 1359 due fratelli originari di Dawei, nel sud del Paese, arrivarono in questa regione per lavorare al servizio di un cosiddetto «Saopha», che significa «signore del cielo», il titolo ereditario assegnato ai capi Shan. Fu talmente soddisfatto del duro lavoro e del comportamento dei due che chiese loro di far giungere altre trentasei famiglie da Dawei: tutti gli Intha, gli appartenenti alla principale etnia che popola le rive di queste acque, sarebbero loro discendenti. Gli Intha sono in effetti grandi lavoratori, conosciuti per la loro originale tecnica di remata, che consiste nell’utilizzare piccole imbarcazioni piatte, sospinte da un remo su cui si fa pressione con la gamba, avvantaggiandosi di una leva simile alla forca veneziana. La superficie del lago è in continua evoluzione a causa dei famosi orti galleggianti, fissati sul fondo – la profondità oscilla tra due e tre metri – con un palo di bambù. Le isole e le penisole che si vengono così a formare sono collegate tramite una rete di canali che costituiscono le principali vie di trasporto e permettono di navigare per ore senza percorrere mai lo stesso tragitto.
Tutta la vita attorno al lago
Il mattino alle 8 la nostra barca ci attende per una splendida gita, che in tre ore lungo canali navigabili ci porterà verso sud, al villaggio di Sagar. È aperto al turismo da pochi anni, da quando il governo ha concesso uno statuto speciale alla tribù dei Pa-O, di etnia Shan, che abita Sagar, ma vive soprattutto sulle montagne ed è famosa per il suo aglio, che sembra sia il migliore del paese. Per visitare il villaggio bisogna essere accompagnati da una loro guida. La tribù dei Pa-O conta circa 500 mila persone e sembra bene organizzata, perché possiede un albergo e un ristorante sul lago e richiede un pedaggio a chi visita Sagar. Con queste entrate vengono finanziate opere sociali. La gita è particolarmente interessante per capire come queste popolazioni riescano a vivere sull’acqua. Siccome il lago è poco profondo ed è colmo di alghe, la nostra barca è dotata di un motore a scoppio con una strana elica che non affonda, ma gira a filo d’acqua causando uno spruzzo a forma di arco. Attraversiamo diversi pittoreschi villaggi con le case a palafitta. La gente vive sulle rive del lago e dei canali: i bimbi giocano con l’acqua, le donne lavano i panni, molti si lavano, altri coltivano i loro orti galleggianti a bordo delle canoe o trasportano merce, altri ancora pescano. Il paesaggio è verdissimo e cambia continuamente prospettiva. Lungo un canale incontriamo addirittura due bufali che nuotano. Finalmente arriviamo a Sagar, dove il mercato sta per chiudere. Gli abitanti ci accolgono con la consueta gentilezza, ci mostrano le loro case e ci offrono banane. Le abitazioni hanno la struttura in canna di bambù e le pareti e i tetti in paglia o fogliame. Sono molto simili a quelle che abbiamo visto sulle montagne. Sulla riva visitiamo alcuni suggestivi stupa abbandonati (monumenti religiosi a forma di cono), che si specchiano nelle acque del canale. Le rare statue di Buddha sono naïf e hanno uno sguardo meno dolce del solito. Sulla via del ritorno notiamo diversi pescatori all’opera. Su minuscole canoe trasportano enormi ceste a forma di cono con un telaio in bambù avvolto da reti. Le posano sul fondo del lago rovesciate e piantano un palo di bambù per sapere dove si trovano. Quindi si spostano attorno e sbattono violentemente il remo della canoa sull’acqua per spaventare i pesci e orientarli verso la rete. Sembra che nel Lago Inle ne vivano venticinque specie. Il nostro barcaiolo si avvicina alla canoa di un pescatore che ci mostra orgoglioso il suo bottino custodito sul fondo dell’imbarcazione.
Gli orti galleggianti
Siamo rimasti sul lago altri due giorni per visitare i mercati, i villaggi specializzati nell’artigianato, i luoghi di culto. Ogni giorno ci colpiva l’enorme diffusione degli orti galleggianti, che coprono circa un terzo della superficie del lago. Gli studiosi affermano che se si va avanti di questo passo nel giro di alcuni secoli il lago scomparirà. Esistono due tipi di orti galleggianti: quelli naturali, che sono lì perché la natura così ha voluto, e quelli artificiali. Creare un nuovo orto galleggiante è faticoso, ma relativamente semplice. Le piante di giacinto che crescono spontaneamente sul lago hanno infatti la proprietà di costituire piccole isole. Si tratta di staccare con grande fatica uno di questi isolotti, di trascinarlo con la canoa dove si desidera, di fissarlo con pali di bambù al fondo del lago (altrimenti fluttua e se ne va) e di ricoprirlo di alghe di cui il lago è colmo, che rendono il «terreno» fertilissimo. Questi isolotti vengono allineati in filari tra i quali i contadini entrano con le loro canoe strette e piatte. Oggi si coltivano soprattutto pomodori (ma anche fiori, frutta e altri ortaggi) che maturano ben tre volte ogni anno. Quelli del primo raccolto sono di piccole dimensioni e vengono pertanto consumati localmente, ma i successivi vengono distribuiti in tutto il paese e ne coprono il 60 per cento del fabbisogno.
Buddha deformati dalla devozione
Le cinque statue di Buddha conservate nel tempio Phaung Daw U, che si affaccia sul lago, sono tra le più venerate in Myanmar. La devozione dei fedeli le ha addirittura sfigurate. In Birmania vige infatti l’usanza da parte dei pellegrini di applicare alle statue del Buddha sottilissimi lamine d’oro, che si acquistano in bustine (simili a quelle delle nostre figurine) nei luoghi di culto. Ebbene, a furia di ricevere foglie d’oro queste cinque statue sono ormai sfigurate e non hanno più la parvenza del Buddha. Ogni anno, tra settembre e ottobre, quattro delle cinque statue vengono trasportate sul lago a bordo di una stupenda imbarcazione, seguita da centinaia di canoe di fedeli in festa, e accompagnate nei vari villaggi, dove trascorrono una notte di grande festa. La quinta statua, a partire dagli anni Settanta, non viene più spostata. Sembra che durante una tempesta la barca che trasportava le cinque statue si rovesciò: quattro furono ripescate, la quinta non fu ritrovata perché si trovava già al suo posto nel convento, ma cosparsa di alghe. Da allora non viene più rimossa.
Il monastero dei gatti saltatori
Il monastero Nga Phe Kyaung è noto per i suoi gatti saltatori, ma custodisce una splendida collezione di statue del Buddha realizzate in vari stili e in diverse epoche. I maligni sostengono che qualche volta anche i monaci buddisti si annoiano. Qualcuno di loro si è allora dedicato ad ammaestrare gatti, che sollecitati saltano dentro un cerchio, come fanno le tigri e i leoni al circo.
Un altro luogo mistico di grande fascino è Shwe Inn Thein, uno straordinario complesso di stupa del XVII secolo costruiti su una collina. Purtroppo sono stati danneggiati dall’azione degli elementi naturali, ma non sono ancora stati restaurati. È proprio questo stato di abbandono a conferire a quel luogo un’atmosfera magica e di pace. Vi si giunge percorrendo un cammino coperto sotto un colonnato lungo quasi due chilometri, che collega il luogo sacro al paese. Purtroppo il turismo ne ha in parte snaturato la magia, perché lungo il corridoio si allineano bancarelle che vendono chincaglierie di cattivo gusto. E dire che l’artigianato di qualità in questo Paese non manca!
Un artigianato di qualità
In Myanmar in generale e al Lago Inle in particolare si può ancora trovare un artigianato di elevata qualità, accanto a prodotti più dozzinali per turisti frettolosi. In questo Paese l’industrializzazione non si è espansa al di fuori dei centri principali, per cui si costruiscono ancora molti oggetti artigianalmente e si sono conservate abilità manuali andate perse ormai quasi ovunque. I prodotti artigianali più preziosi del Lago Inle sono certamente i tessuti ottenuti filando la fibra contenuta nel fusto del fior di loto. È l’unico posto al mondo dove avviene questa lavorazione, che richiede tempi lunghissimi. Ma qui la mano d’opera costa poco, troppo poco: il guadagno mensile di una tessitrice si aggira attorno ai 100 dollari. Quasi in ogni casa è presente un telaio. Al Lago Inle, come ad Amarapura, la città imperiale vicino a Mandalay, si tesse il filato di seta proveniente dalla Cina, ottenendo stoffe di elevatissimo pregio. In altre parti del Myanmar, anche sulle montagne, vengono invece prodotti teli variopinti in cotone con soggetti tradizionali di grande bellezza. I più interessanti si acquistano sul luogo di produzione. Sul Lago Inle esistono anche centri di lavorazione dell’argento, di produzione della carta fatta a mano e di sigari con le foglie di tabacco coltivato negli orti.
Lungo una strada di Mandalay, alcune centinaia di chilometri a sud rispetto al Lago Inle, un’intera via è dedicata agli atelier dove si lavora il marmo e si producono soprattutto Buddha di dubbio gusto. Bagan, la città che ospitò il primo impero birmano tra l’XI e il XIII secolo è invece famosa per i suoi preziosi oggetti in lacca, la cui lavorazione richiede alcuni mesi.
Una terra di mercati
Non puoi conoscere un paese senza visitare i suoi mercati. E questo vale soprattutto per una nazione poco industrializzata come il Myanmar. Il mercato forse più interessante e pittoresco che abbiamo visitato durante il viaggio è quello del villaggio di Nam Pan, il più grande che si tiene sulle rive del Lago Inle, dove ogni giorno della settimana cambiano le sedi dei mercati. In questo luogo affluisce sia la gente che viene dal lago, sia quella che scende dalle vicine montagne. L’afflusso dalla riva è caotico, perché le imbarcazioni sono moltissime ed è quasi impossibile ormeggiare. Una volta giunti a terra il mercato è enorme e vi si trova di tutto. La parte dedicata ai turisti è per fortuna molto ristretta. Tutto il resto è per gli indigeni. Il più variopinto è il settore ortofrutticolo. È incredibile la varietà dei prodotti alimentari. Qui si utilizza tutto di tutto. Non si butta via niente. Lo abbiamo notato in tutti i mercati durante il viaggio. May, la nostra graziosa e validissima guida, che è anche una buongustaia, ci mostra tutti i cibi e ci spiega come si cucinano.
Praticamente ogni giorno durante il nostro itinerario in Myanmar abbiamo visitato mercati. I più interessanti sono quelli a cui affluiscono i contadini da varie parti della regione, come accade al Lago Inle, ma anche a Kyaing Tong nel nord-est e a Bagan. Notissimo è anche il mercato di Yangon, dove si trova di tutto, ma non il fascino della campagna.
Per saperne di più
- M. Bussagli, Che cosa ha veramente detto Buddha, Ubaldini Editore
- Henry-Charles Puech, Storia del buddhismo, Oscar Saggi Mondadori
- Edward Conze, Breve storia del buddhismo, Biblioteca Universale Rizzoli
- Tiziano Terzani, In Asia, Longanesi 1998
- Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Longanesi 1995
- George Orwell, Giorni in Birmania, Oscar Mondadori 2009
- Alan Watts, Buddhismo, Edizioni Red 2008
- Myanmar (Birmania), Lonely Planet
- Myanmar, Guide per viaggiare, Polaris
- Aung San Suu Kyi, La mia Birmania, Corbaccio 2008