«Cercate il “vostro” bunker? Non funziona così»
Non saranno le sirene dell'allarme generale, ma una piccola spia luminosa che lampeggia in una sala comandi, sì. La Protezione civile è sotto pressione. Ancora una volta al centro dell'attenzione. Non ancora finita del tutto l'emergenza coronavirus, ecco che arriva la guerra. I profughi dall'Ucraina, la messa a punto dei luoghi di accoglienza in tutta velocità. E poi le telefonate. Telefonate di cittadini che, preoccupati dalle devastanti immagini dei missili russi, chiedono informazioni sul rifugio che «spetterebbe di diritto».
A Locarno, il comandante Lorenzo Manfredi controlla le scorte di cibo appena ordinate nelle cucine del bunker di Piazza Castello. Tra viveri e acqua, ce n'è abbastanza per un centinaio di persone per quindici giorni. Anche se non ci sono pericoli tali da correre ad acquistare viveri o a liberare scantinati, la tensione sale. «Riceviamo telefonate di persone preoccupate – dice –. E succede anche alle altre cinque regioni del Ticino». La «Regione 3», Locarno e Vallemaggia, è la più estesa in Ticino e conta 70.000 residenti. «Abbiamo fatto i nostri conti, abbiamo un posto protetto per tutti».
Ma cosa rispondere a chi chiede dove si trova «il mio rifugio»? «Non funziona così. Secondo Berna, siamo in tempo di pace. Se dovessero suonare le sirene, occorre seguire le indicazioni trasmesse dalle autorità. Tra queste, potrebbe esserci quella di raggiungere un rifugio. È uno scenario da “si salvi chi può”. Se fosse necessario, occorre raggiungere il bunker più vicino». Ma, appunto, questo non ha nulla a che vedere con la guerra. «È il caso peggiore». L'ordine deve partire dalla Confederazione. E sarebbe una catastrofe. La nazione si bloccherebbe per cinque giorni. «Il tempo assegnato per liberare tutti i rifugi, anche quelli più piccoli che ora sono usati come depositi e cantine. Dovrebbero essere arredati con scaffali, letti, latrine. E poi occupati». E chi farebbe tutto questo lavoro? La Protezione civile? «Eh, no. È la popolazione che deve farlo. I singoli proprietari».
È pur vero che ci sono anche i rifugi pubblici. Quelli sotto le scuole, le palestre. «Sono molto interessanti. Perché sono già sgombri e permettono di "stiparvi" centinaia di cittadini. Riusciamo a metterli a punto in poco tempo». Ma, in ogni caso, c'è un altro problema. All'interno della Protezione civile stessa mancano una serie di «conoscenze pratiche» sulla vita in un rifugio. Per esempio: occorre mettere un martello al di fuori della porta blindata. Servirà a mo' di «campanello» per chi voglia «bussare» dall'esterno. Oppure: i letti non vanno attaccati alle pareti, ci vuole qualche centimetro di distanza. La condensa che si forma all'interno del locale cola lungo i muri. E, ancora: vietato cucinare all'interno. Nonostante nei servizi in tv si veda pure chi mostra un fornello. «Pessima idea. Scordatevi di cucinarvi un piatto di pasta! Le scorte alimentari devono essere consumabili a freddo». Già l'aria è un problema, figuriamoci un incendio in uno spazio così sigillato. «Per non parlare del caldo e dell'umidità. Immaginiamo trenta persone in un locale di trenta metri quadrati...».
Ma queste «conoscenze», qualcuno le ha mai messe in pratica? La Protezione civile Locarno e Vallemaggia ha avviato una serie di momenti di formazione interna rivolti ai professionisti. «Negli anni Ottanta e Novanta formavamo i cosiddetti "capi rifugio"». Militi che ricorderanno la notte trascorsa tra le spesse mura di cemento. «E che oggi avranno probabilmente i capelli grigi», scherza Manfredi, sfogliando un quaderno con la copertina arancione, titolato Manuale dei rifugi. L'ultima volta è stata una ventina di anni fa. Forse trenta. «La politica di sicurezza dice che il pericolo di una guerra in Svizzera è molto basso. Solo in caso di guerra si tornerebbe a queste formazioni. Oltre a preparare la pianificazione dell'attribuzione dei posti protetti». Quel che, in gergo, è definito con l'acronimo «Piat». È proprio questa, in tempo di guerra, che permette di rispondere alla domanda che molti, in questi giorni, si pongono: «Dove si trova il mio rifugio?».
Manfredi srotola una planimetria stampata su plotter dell'area di Piazza Fontana Pedrazzini. «PIAT — Piano attribuzione posti protetti» recita la grande intestazione in alto a sinistra. Sotto, la data: 29 settembre 1993. «I militi che seguivano la formazione di capo rifugio erano in grado di aiutare la popolazione a preparare il rifugio e davano una mano ad occuparli. Nel caso peggiore parliamo di quindici giorni di autarchia, senza mai uscire dalla struttura».
Le maschere antigas? Non ci sono più
Per uscire dal rifugio, nel caso in cui l'aria all'esterno dovesse essere contaminata per esempio con agenti contaminanti o radioattività, è necessaria una maschera antigas. «Fino a una trentina di anni fa, avevamo in magazzino qui nel Locarnese 15.000 maschere. Ora non le abbiamo più. La Confederazione le ha ritirate, dato che trascorso qualche anno la loro efficacia non è più garantita, siccome la gomma impiegata nella fabbricazione ha la tendenza a deteriorarsi. Questo significa che, qualora dovesse esserci una guerra e dovessimo preparare i rifugi, dovremmo acquistare in tutta fretta migliaia di maschere. Perché ogni rifugio ha bisogno almeno di una maschera».
La Piat: un lavoro immane
La filosofia dell'attribuzione dei posti protetti dovrebbe essere perlomeno rispolverata. In alcuni cantoni è sufficiente inserire alcuni dati personali e il singolo cittadino sa quale dovrebbe essere – sempre in caso di guerra – il suo rifugio. In Ticino, invece, le cose stanno diversamente. «Questo lavoro era stato fatto per decine d'anni. Alla fine degli anni Novanta l'abbiamo interrotto. La Confederazione, oggi, se ci fosse un'emergenza, ci dà tre mesi per realizzarla. Ma si tratta di un lavoro immane. All'epoca avevamo i quadri della Protezione civile che passavano giornate ad aggiornare, ogni cinque anni, questi piani». I grandi fogli delle planimetrie contengono alcuni edifici colorati e una serie di frecce dai palazzi vicini. Ogni palazzo contiene il numero di abitanti e, quelli colorati, il numero di posti protetti nel bunker. «A livello cantonale, stiamo valutando l'acquisto di un programma informatico che potrebbe facilitare questo compito rendendo anche più rapido l'aggiornamento di questo piano di attribuzione».
I «proprietari» non contano nulla
Il rifugio, in caso di guerra, non ha più un proprietario. Il concetto è spesso sottinteso. «Mettiamo un piccolo rifugio sotto una villetta. Qui abbiamo una coppia con un cane. Ecco, se loro sperano di passare i brutti momenti nella comoda tranquillità del loro rifugio, se lo scordino pure! Il rifugio, in caso di emergenza, diventa della Protezione civile. E molto probabilmente dovrà accogliere i vicini, rispettando appunto la pianificazione. Anche se non sono proprio loro amici». Anni di litigi da mettere da parte. Condividendo il metro quadrato a testa. La convivenza, in queste condizioni, è oggettivamente difficile. Il nostro interlocutore lo sa bene, forte dell'esperienza vissuta accogliendo i profughi fuggiti dalle bombe sganciate sull'Ucraina.
Gli unici in Europa
«Posso anche immaginare che non tutti ubbidiranno alle istruzioni e qualcuno non si presenterà al rifugio. Non è un problema. Se qualcuno ritiene più sicuro scappare verso il proprio rustico in cima alla Vallemaggia, non si preoccupi. Il suo posto al rifugio qualcuno lo prenderà lo stesso. Siamo gli unici in Europa ad avere rifugi per tutta la popolazione!», esclama l'esperto. L'allarme scatenato da una guerra, infatti, non ha confini. Uno scenario catastrofico che vedrebbe molti raggiungere la Svizzera dai Paesi confinanti. Siamo ancora sicuri di voler sapere dove si trova il nostro bunker?