Be Here Now degli Oasis compie 25 anni
Ah, l’estate del 1997. Bella, bellissima. Caotica, anche. Era un’estate dispari, senza Europei e Mondiali di calcio. Quindi, inevitabilmente, vuota. Anche se poi, beh, di cose ne successero. La morte di Gianni Versace, quella di Lady D poche settimane più tardi. All’epoca eravamo adolescenti. Rincorrevamo amori impossibili sotto l’ombrellone. Studiavamo il calciomercato e i possibili acquisti per l’asta del Fantacalcio. E aspettavamo. Dapprima con calma, poi senza più contegno. Infine, quasi sfiniti, il 21 agosto sfilammo dall’armadio la t-shirt del cuore e ci presentammo di buonora davanti al negozio di dischi. Usciva Be Here Now, il terzo album degli Oasis, i nostri Beatles. E niente, in quel preciso istante, sembrava più importante.
Le aspettative
La genesi di quel disco, le continue litigate fra Liam e Noel Gallagher, la politicizzazione del Britpop con Tony Blair, come pure il successo, totale, che gli Oasis ottennero con i primi due lavori contribuirono ad alimentare il mito. E a fare di quell’estate una sorta di spartiacque. Un anno prima, la band di Manchester si esibì in un doppio concerto a Knebworth al quale parteciparono 250 mila persone. Pochi fortunati, considerando che la richiesta per i biglietti era dieci, se non di più, volte superiore. Un luogo divenuto culto, riabbracciato quest’anno da Liam durante il suo tour come solista.
Normale, logico addirittura che attorno a Be Here Now si fosse creata un’attesa spasmodica. Gli Oasis, per dirla con Noel, erano davvero la band più grande del mondo. Forse non in termini di talento, di sicuro come seguito e capacità di convogliare le folle. A quei tempi, proprio pensando a Knebworth, la frase ad effetto era una: «250.000 people can’t be wrong». No, amare gli Oasis non era sbagliato. Non lo era, a maggior ragione, nell’estate del 1997.
La produzione monstre
Be Here Now ebbe una genesi particolare. Fu un disco indubbiamente sovradimensionato e sovraprodotto. Anche a riascoltarlo oggi, a freddo. Con troppe chitarre, troppi effetti, finanche troppi richiami al cosiddetto muro del suono. Prendete la prima traccia, D’You Know What I Mean?, introdotta dal rumore di elicotteri simil Vietnam: una lunga, lunghissima cavalcata zeppeliniana a conferma della volontà, precisa fino a un certo punto, di andare oltre. E di stordire. Be Here Now fu, tornando all’insieme, un disco incredibilmente lungo per gli standard oasisiani, a tratti perfino pacchiano e volutamente ricco. Uno schiaffo alla fame, volendo ricorrere a un’espressione abusata.
Ma il terzo disco degli Oasis, in fondo, fu la sintesi di quel contesto, di quegli anni, di quell’ascesa così prepotente e sfrenata da divenire, a un certo punto, incontrollabile. Chiedetelo a Owen Morris, il produttore, trovatosi a gestire da una parte le bizze dei fratelli Gallagher e, dall’altra, tonnellate di droga. Letteralmente, con particolare predilezione per la cocaina. Fu la sintesi di un percorso creativo complicato e tortuoso, caratterizzato dal famigerato blocco dello scrittore che colpì Noel, a quei tempi unico autore, dopo (What's the Story) Morning Glory?. E di parecchi studi di registrazione utilizzati lungo il cammino.
All’equazione, poi, bisogna aggiungere i Caraibi e nello specifico l’isola di Mustique. Dove Noel, proprio lui, trascorse le vacanze con Kate Moss e Johnny Depp nella villa di sua maestà Mick Jagger. E dove, appunto, scrisse gran parte delle canzoni. Curiosità: dopo una sbronza in spiaggia, presumiamo a base di liquori locali, Noel e Johnny si accordarono affinché il secondo prestasse il suo talento alla chitarra in Fade In-Out. Siccome le cose andavano fatte in grande, tanto che nelle intenzioni iniziali Be Here Now avrebbe dovuto essere un doppio album, per alcuni cori venne preso nientepopodimeno che Richard Ashcroft, leader dei Verve cui era stata dedicata, nel disco precedente, Cast No Shadow.
L’accoglienza
Il disco, accompagnato da una copertina iconica con svariati richiami ai Beatles (indizio: la targa della Rolls Royce) come alla cultura Mod e, ancora, al batterista degli Who Keith Moon, capace di finire in piscina con la sua macchina dopo aver bevuto decisamente troppo, infine arrivò negli scaffali dei negozi e alle orecchie dei fan. Fu un successo commerciale devastante, basti pensare che nel solo Regno Unito – il primo giorno di vendita – Be Here Now fece oltre 420 mila copie. In fila, quell’estate, c’era anche un giovanissimo Pete Doherty, futuro leader dei Libertines e dei Babyshambles, nonché fidanzato di Kate Moss, sempre quella Kate Moss: intervistato dalla televisione, citò (inventando) Umberto Eco.
Noel Gallagher, negli anni, arrivò quasi a odiare Be Here Now. A differenza, manco a dirlo, del fratello. «È il suono di un gruppo di ragazzi, con la droga, in studio, che non se ne fregavano niente di niente» ebbe a dire Noel. «Non c'è proprio basso; non so cosa successe... E tutte le canzoni sono davvero lunghe e tutti i testi sono merda e per ogni millisecondo in cui Liam non dice una parola c'è un riff di chitarra in stile Wayne’s World». Un’autocritica eccessiva, forse figlia di alcune recensioni negative e del fatto che, a detta di alcuni critici musicali, gli Oasis non riuscirono più a ritrovare la verve dei primi due lavori.
Poco importa, in fondo. Quell’estate di 25 anni fa, nell’agosto del 1997, gli Oasis erano i più grandi. E per molti di noi nostalgici lì sono rimasti. Maleducati, infantili, sbracati, litigiosi e rumorosi. Nell’album precedente chiesero, espressamente, di non affidare le nostre vite a una rock and roll band. Troppo tardi, oramai. Lo avevamo fatto. E non ce ne siamo mai pentiti. Buon compleanno, Be Here Now. Sei diventato adulto ma ruggisci ancora come un leone.