L'analisi

Berna finanzia anche Tinder

La strategia della Confederazione per contrastare le bufale non è priva di contraddizioni
Mauro Spignesi
12.02.2023 07:00

Durante la pandemia giornali, radio e televisioni si erano dati regole precise. E ogni intervista alle autorità (anche mediche) veniva passata al setaccio dello Stato maggiore cantonale di condotta (SMCC), che governava la crisi. Questo per evitare che si divulgassero notizie false, o comunque fuorvianti. Ma mentre i contagi salivano, una montagna di denaro pubblico finiva nelle casse delle grandi multinazionali (che peraltro non pagano le tasse da noi) che gestiscono i principali social network. Milioni di franchi (ne parliamo a pagina 8). I social sono i mezzi di comunicazione che hanno avuto di più dalla Confederazione per le campagne istituzionali di pubblicità legate alla prevenzione e ai vaccini contro il Covid 19.

Ciò avveniva mentre Berna metteva in guardia dalle bufale, da migliaia e migliaia di post fatti girare quotidianamente alla velocità della luce, che si incontravano sui vari Facebook, Twitter, TikTok, YouTube. A scoppio ritardato, dopo aver pagato generose fatture, Berna ha capito che doveva rimediare. Tanto è vero che un anno fa lo stesso Consiglio federale ha ipotizzato di regolamentare le piattaforme, dopo aver risposto no, che non era necessario, a richieste arrivate in precedenza da diversi parlamentari. Il Governo (che ha un suo regolamento interno), riportava una nota dell’ATS, ha incaricato il Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni (DATEC) di presentare un documento sull’opportunità (o meno) di regolamentare queste piattaforme di comunicazione e su come procedere. «Stando ai sondaggi, la popolazione svizzera teme di essere confrontata con un numero crescente di notizie false - le cosiddette fake news - sui social network e sui portali video», aveva spiegato il Consiglio federale. Precisando che diversi studi commissionati dall’Ufficio federale delle comunicazioni (UFCOM) erano arrivati alla conclusione che la popolazione ha il sacrosanto diritto a una protezione efficace contro i discorsi di odio e la disinformazione. E che i diritti dei cittadini devono essere protetti meglio.

Detto questo, resta la contraddizione aperta con i milioni spesi per la pubblicità contro il Covid: come si fa da una parte a dire che sui social giravano notizie sul virus tra le più bizzarre, e dall’altra a fare pubblicità su questi spazi nel web? L’unica attenuante che si può concedere è che si voleva arrivare ai giovani, la categoria di popolazione - si è detto mille volte - più influenzabile. Ma questa spiegazione non basta, perché - e questa è l’aggravante - non si capisce allora come mai Berna abbia voluto fare pubblicità su applicazioni come Tinder, il sito di incontri, quello che volgarmente serve «per rimorchiare», o altri che concentrano il proprio business milionario sui videogiochi. Foraggiare i social - peraltro oggi in crisi, con diverse grosse aziende che hanno tagliato la loro pubblicità perché non vogliono più avere a che fare con le campagne d’odio - ha indebolito anche chi ha cercato di dissuadere la popolazione a non informarsi su canali di comunicazione poco affidabili. E questo perché le piattaforme non hanno alcun obbligo di garantire la veridicità di ciò che gli utenti pubblicano. Twitter, per esempio, dopo aver sospeso 11 mila account ha detto che non controllerà più i contenuti. D’altronde è praticamente impossibile districarsi tra miliardi di messaggi. Anche se va detto che Facebook ha cercato di rimediare con post che riportavano ai siti delle autorità. Ma è un cerotto sulla ferita.

Perché nella grande confusione di informazioni di quei mesi (ma ancora oggi) era davvero difficile districarsi. Si citavano documenti e studi, senza specificare se si trattasse di ricerche sottoposte alla cosiddetta «valutazione tra pari», cioè se fossero state pubblicate in una rivista specializzata, e dunque risultassero conformi agli standard e accettate dalla comunità scientifica.

C’è di più. In uno studio pubblicato sul bollettino dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emerge che il 51% dei post associati ai vaccini ha veicolato disinformazione.

Basta? Si potrebbero citare altre decine di studi e ricerche. Ma forse è meglio concludere affidandosi al personaggio più noto della campagna internazionale contro il Covid, lo scienziato Anthony Fauci, a lungo direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases. Alla rivista «Science» ha spiegato: «L’era dello tsunami dei social media è, per me, qualcosa che non avevo mai vissuto prima a questo livello. E questo fa la differenza. Ora il sistema è stato inondato di disinformazione. Quindi non so come contrastarlo». E questo è accaduto con la complicità degli Stati.

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