Carlo Chatrian: «Sono felice di aver riportato il cinema al centro del discorso»

Dopo le vicissitudini che lo hanno costretto, nel settembre scorso, a rassegnare le dimissioni dalla carica di direttore artistico, Carlo Chatrian si appresta a vivere, dal 15 al 25 febbraio prossimi, la sua ultima edizione alla guida della Berlinale. E lo fa, come sempre, con grande professionalità ed entusiasmo. Ecco cosa ci ha detto a proposito della 74. edizione del festival che dirige dal 2020.
In questi tempi difficili, i festival sono luoghi essenziali per il confronto e il dialogo costruttivo tra culture diverse: la 74. Berlinale come conta di interpretare questo ruolo?
«La Berlinale è da sempre un luogo d’incontro, forse più di altri festival perché si svolge in una città di 4 milioni di abitanti con alle spalle una storia travagliata e appassionante e oggi popolata da persone molto diverse come background, formazione, cultura ed etnia. Organizzare un festival in un simile contesto è quindi di per sé una sfida stimolante e oggi anche un suo punto di forza. Nello specifico, noi vogliamo parlare attraverso i film che abbiamo scelto. Vogliamo che siano i film a permettere l’incontro, lo scambio, la discussione anche vivace Da questo punto di vista non ci siamo piegati ad alcuna censura: avremo film che provengono da ogni parte del mondo e che toccano praticamente ogni tema. Dalle proteste ecologiche con il documentario Direct Action nella sezione Encounters alla stretta attualità con tre film che parlano dell’Ucraina: due produzioni nazionali e una che rappresenta la personale lettura di questa realtà da parte di Abel Ferrara con l’aiuto di Patti Smith. Abbiamo inoltre un film di un grande regista israeliano, Amos Gitai, interpretato anche da attori palestinesi e con al centro l’attrice ginevrina Irène Jacob. All’opposto, abbiamo un film palestinese di cui uno dei due registi è israeliano (No Other Land in Panorama: ndr.). Un altro tema presente al festivak è la riflessione sul post colonialismo, come nel film Dahomey di Mati Diop o nel film in concorso Pepe che presentano una rilettura critica del passato da una prospettiva extra europea. Penso che siano tutti film che aprono al dialogo. Invece di indicare una via, chiedono allo spettatore di fare un passo indietro rispetto alle sue convinzioni».
Delle scelte coraggiose: vi aspettate particolari problemi di sicurezza?
«Ovviamente un festival che attira quasi mezzo milione di persone pone delle sfide importanti. Abbiamo un sistema di sicurezza collaudato, che sarà rafforzato in alcuni casi, ma spero che la Berlinale resti un luogo di discussione civile, non di contrasti violenti».
Il secondo anniversario dell’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina cadrà proprio durante il festival: sarà una giornata particolare?
«Sarà una giornata particolare anche perché coincide con la nostra cerimonia di chiusura. Quel giorno, sugli schermi di tutte le sale dove saranno proiettati i film della Berlinale sarà mostrata la bandiera ucraina, ma - come detto - l’Ucraina è presente nel nostro programma e anche nella giuria principale con la poetessa e scrittrice Oksana Zabuzko, Quindi sarà un avvenimento che non dimenticheremo».


Nel suo testo introduttivo usa la metafora dell’albero per descrivere il programma di un festival. Le «radici» della 74. Berlinale sono così rappresentate da due registi che riceveranno gli Orsi alla carriera: Edgar Reitz e Martin Scorsese. Cosa li accomuna?
«Martin Scorsese è senz’altro più noto, però per me Edgar Reitz è altrettanto importante. Sono due registi che hanno saputo abbinare il piacere del racconto alla riflessione sulla Storia. Rileggendo l’opera di Scorsese partendo dal suo ultimo film Killers of the Flower Moon, è evidente che quasi tutti i suoi lavori sono anche una rilettura della storia dell’America e non solo. Sono due cineasti anziani ma estremamente vitali ed è bello quindi non celebrare solo il passato ma anche il presente. D’altra parte, le radici della selezione 2024 sono costituite anche da tutti i film con cui ci siamo confrontati, anche come semplici spettatori. in passato e dai registi presenti nelle varie sezioni che arrivano qui non solo con il loro ultimo film ma anche con il loro vissuto. Penso a Olivier Assayas, Hong Sangsoo o ad André Téchiné. Ogni sezione propone quindi uno sguardo verso il futuro, verso i registi più giovani - come è nel DNA del festival - ma anche una giusta celebrazione degli autori, se così vogliamo ancora chiamarli, a cui tengo molto».
Rimanendo nella metafora, la biodiversità di questa «foresta» del cinema è sempre garantita?
«Direi di sì, anche se ogni anno la selezione prende un taglio diverso e questa è anche la bellezza del lavoro che facciamo. La biodiversità è sempre molto forte: quest’anno soprattutto nel concorso ci sono cinematografie che da tempo mancavano all’appello. Abbiamo un film tunisino, uno della Costa d’Avorio e uno senegalese ambientato in Benin. C’è un film neoalese, uno della Repubblica Dominicana girato in Colombia e in Namibia. Questa grande diversità ci rende oltremodo felici perché non facciamo concessioni ma cerchiamo sempre di valutare i film per quello che sono. Questa varietà di sguardi arricchirà il festival di modalità di racconto e di messa in scena diverse da quelle a cui siamo più abituati».


Che bilancio può trarre delle cinque edizioni della Berlinale che ha diretto, tra Covid, guerre e altre situazioni non facili da affrontare?
«Sono stati anni molto movimentati ed è bello ricordarli così ora che li abbiamo messi alle spalle. Dal mio punto di vista c’è una grande soddisfazione, perché se mi volto indietro e vedo gli ospiti che sono arrivati e i film che sono stati premiati e il percorso che molte opere hanno fatto, ciò rispecchia in pieno quelli che erano i miei desideri. Avevo l’intenzione di riportare il cinema al centro del festival, senza dimenticare che Berlino è un festival politico, e questo è il più grande successo che posso attribuirmi. Sono stati anni segnati da eventi extra cinematografici, ma alla fine i film che sono stati premiati con l’Orso d’oro sono tutti film politici ma sostenuti da un linguaggio cinematografico forte. Se penso solo a Sur l’Adamant, il film di Nicolas Philibert premiato nel 2023, tra tutti è forse il più tradizionale ma non capita spesso che un documentario vinca, ma dietro un aspetto apparentemente lineare nasconde molti gioielli di messa in scena».
Da dodici anni a questa parte dirige un festival internazionale: conta di continuare a fare questo bellissimo e difficile mestiere?
«Dodici anni sono forse troppi? (ride) Non ho ancora una visione chiara sul mio futuro. È ancora troppo presto o forse no. In ogni caso è troppo presto per me poiché da quando ho preso la decisione di non continuare il mio lavoro a Berlino, sono stato impegnato a organizzare l’edizione 2024 nel miglior modo possibile. Le risposte le darete poi voi, ma sono molto contento del programma e quando il festival sarà finito prenderò un po’ di distanza e vedrò cosa c’è all’orizzonte. Se non è un festival sarà qualcos’altro ma confido di restare ancora per qualche anno a lavorare nell’ambito cinematografico».
Ci mancherebbe...