Energia

Chiude il Nord Stream 1, la Germania ora teme il peggio

Mosca interrompe «per manutenzione» il flusso di una delle principali arterie che riforniscono direttamente Berlino di gas russo – I comparti industriali della chimica, della metallurgia e dello zucchero rischiano pesantissimi stop - L’inverno tedesco potrebbe essere lunghissimo
Daniel Mosseri
11.07.2022 06:00

I primi studi sull’eccessiva dipendenza della Germania dal gas di Mosca sono cominciati a circolare alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina. E già il 22 febbraio, due giorni prima dell’ingresso dei primi blindati della Federazione nel territorio dell’ex Repubblica sovietica, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ordinava la chiusura del nuovissimo Nord Stream 2, il secondo gasdotto diretto Federazione Russa-Repubblica federale. Da allora le relazioni fra i due Paesi sono molto peggiorate, ma adesso si comincia a fare sul serio. Da oggi fino al 21 luglio Mosca ha disposto la chiusura «per manutenzione» del Nord Stream 1, la pipeline voluta dai socialdemocratici dell’ex cancelliere Gerhard Schröder e inaugurata nel 2011 da Angela Merkel.

Corsa contro il tempo

La Russia ha risposto con uno schiaffone al pizzicotto di Scholz dello scorso febbraio, ricordando ai tedeschi che il coltello dalla parte del manico, ovvero la mano sul rubinetto del gas ce l’ha il Cremlino. La chiusura – per adesso temporanea – della pipeline ha esposto a tutti la debolezza della Germania sul fronte dell’approvvigionamento di gas. Certo in questi mesi Berlino non è rimasta con le mani in mano: una settimana fa il governo della Bassa Sassonia, il Land con Hannover, ha autorizzato a tempo di record l’inizio dei lavori per la costruzione di un impianto di rigassificazione del GLN a Wilhelmshaven mentre il Governo federale ha già noleggiato e messo in azione quattro rigassificatori galleggianti. Prima però di sostituire 46 miliardi di metri cubi di gas importato dalla Russia ci vorranno anni. Nel frattempo Vonovia, con 490 mila appartamenti il più grande proprietario di immobili in Germania, ha ordinato di abbassare la temperatura notturna in quelli con il riscaldamento centralizzato a metano. Un segnale che il prossimo inverno potrebbe essere molto lungo, tanto più che, a giugno, la russa Gazprom ha ridotto del 40% le esportazioni di gas attraverso Nord Stream 1 lamentando la mancata restituzione di alcune turbine del gasdotto inviate mesi prima in Germania per riparazioni. Con il risultato che oggi i siti di di stoccaggio tedeschi sono ai minimi storici.

Le turbine, un caso diplomatico

Berlino si scopre così molto esposta mentre Mosca, grazie all’impennata del prezzo del gas su scala globale, vende meno metano senza rimetterci un rublo. I guai sono tutti per l’Europa: venerdì il Governo federale ha dovuto assicurare un salvataggio di Stato da 9 miliardi per Uniper, il gigante tedesco della distribuzione del gas a rischio fallimento per non aver potuto scaricare sugli utenti finali il 100% dell’aumento del prezzo del gas. Uniper è in buona compagnia: l’industria chimica, che non può sostituire il gas con il carbone, è in grande sofferenza. L’istituto IFO di Monaco ha misurato le aspettative del comparto, rilevando a giugno un crollo a -40,3 punti, rispetto ai -27,2 punti di maggio. «C’è molta incertezza su un embargo del gas russo e sulle sue possibili conseguenze per l’industria chimica», ha spiegato l’esperta Anna Wolf dell’IFO, anticipando anche un calo della produzione associato a un aumento dei prezzi dei prodotti. L’unica buona notizia per la Germania in queste ore è arrivata dal Canada, il cui governo concederà «un permesso temporaneo» per restituire alla Germania le turbine di Nord Stream 1 che Siemens Germania aveva inviato a Siemens Canada per riparazioni e che erano rimaste bloccate sul territorio canadese causa sanzioni. Il ministro delle Risorse Naturali di Ottawa, Jonathan Wilkinson, ha ceduto alle pressioni dei tedeschi «e di altri Paesi europei, che stanno cercando di ricostituire le scorte di gas per i prossimi mesi invernali, sostenendo la capacità dell’Europa di accedere a un’energia affidabile e conveniente mentre continua la transizione dal petrolio e dal gas russo». L’Ucraina ha cercato di opporsi alla decisione canadese: un tentativo che ha molto infastidito il Governo tedesco, che pure non lesina gli aiuti finanziari a Kiev.

Nelle stesse ore a Berlino è saltata la testa dell’ambasciatore ucraino Andrij Melnyk, richiamato in patria assieme ad altri suoi colleghi. «Un normale avvicendamento diplomatico», secondo quanto fatto circolare dall’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, mentre in Germania molti vi hanno letto la reazione dei tedeschi allo sgomitare degli ucraini: Melnyk è sempre stato tollerato a fatica dai tedeschi per i suoi modi poco diplomatici e per le sue recenti uscite a favore di Stepan Bandera, un nazionalista antisemita ucraino macchiatosi di crimini orrendi contro ebrei e polacchi in Ucraina negli anni ’40 e che in tempi recenti Kiev ha rivalutato come icona dell’identità nazionale in chiave antirussa.

L'autosufficienza

Le tensioni sull’asse Berlino-Kiev rivelano la stanchezza dei tedeschi per una crisi energetica e finanziaria che si immagina di lunga durata, ma anche la paura degli ucraini di essere abbandonati al loro destino. La Repubblica federale continua intanto ad attrezzarsi per far fronte a un possibile blocco dell’oro blu. Già dal 2030 è previsto che l’80% dell’elettricità in Germania derivi da fonti rinnovabili per arrivare quasi al 100% cinque anni dopo. A inizio luglio l’Agenzia federale marittima e idrografica ha approvato un piano di sviluppo dell’energia eolica offshore nel Mare del Nord tedesco e nel Mar Baltico che prevede l’aumento della produzione a 30 gigawatt entro il 2030, 40 GW al 2035, 60 GW al 2038 e 70 GW entro il 2045.

Riaccese le centrali a carbone

La sfida per i tedeschi è però sul breve periodo: oltre ad aver appena registrato il primo deficit della bilancia commerciale dai tempi della riunificazione e mentre l’inflazione a giugno ha raggiunto il 7,6% su base annua, la Repubblica federale si prepara ad affrontare il primo inverno forse senza gas russo (nel 2020 il 55% dell’import nazionale). Il vicecancelliere dei Verdi, Robert Habeck, ha annunciato a malincuore il pieno rilancio delle centrali a carbone. Resta adesso da capire come alimentare quei comparti industriali come chimica, metallurgia, vetro e zucchero (la Germania è il secondo produttore del dolcificante su scala europea) che non possono fare a meno del gas.

L'industria svizzera mette le mani avanti in caso di carenza

Il delicato tema energetico tiene banco anche in Svizzera. La prospettiva di una penuria di gas il prossimo inverno fa infatti già scattare la corsa per stabilire chi avrà diritto a essere soddisfatto in modo prioritario, e l’industria elvetica mette le mani avanti: spetta alle economie domestiche passare in secondo piano. Intanto il presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM), Fabio Regazzi, critica il Consiglio federale, che a suo dire non dà indicazioni sul tema e non permette quindi alle aziende di prepararsi. Frank Ruepp, presidente dell’Interessengemeinschaft Energieintensive Branchen (Igeb), cioè il gruppo di lavoro dei settori industriali a forte consumo energetico, è già in trincea: «Senza gas tutto si blocca», mette in guardia in dichiarazioni riportate dal SonntagsBlick. Intere catene di produzione dovrebbero essere chiuse. «La carta, ad esempio, possiamo produrla solo a pieno regime perché i processi sono ad alta intensità energetica». Ruepp chiede, in caso di razionamento del gas, che le famiglie «non ricevano un trattamento privilegiato». A suo avviso i privati devono «assolutamente» farsi carico di una quota maggiore degli sforzi per il risparmio. «Non è possibile che l’industria debba chiudere mentre si alza il riscaldamento nelle case». Sulla stessa lunghezza d’onda è Danilo Fiato, presidente dell’Associazione svizzera delle fonderie. «L’industria non può semplicemente accollarsi un tale deficit energetico. «Cosa è più importante? La mobilità individuale, il trasporto pubblico, il riscaldamento, internet o le colate in fonderia?».

Pure Regazzi appare preoccupato. «Come imprenditore, so che la cosa peggiore è l’incertezza», dice il presidente dell’USAM. ««Le imprese hanno paura», mette in guardia il consigliere nazionale ticinese. «Chi ha bisogno di molta energia attualmente non sa se e come potrà continuare a gestire la propria attività in caso di emergenza». Regazzi chiede chiarezza al Consiglio federale, invitato a mostrare quali siano i suoi piani e quali gli scenari di emergenza. «Ma ho l’impressione che il Governo stesso sia ancora piuttosto all’oscuro: questo non va affatto bene».

Rimanendo in campo energetico, in Svizzera si assiste a una corsa ai pannelli solari. Come ha confermatol’organizzazione federativa dell’economia delle energie rinnovabili e dell’efficacia energetica, sull’onda di una possibile carenza di elettricità il prossimo inverno, gli svizzeri cercano di correre ai ripari. Tanto che il fatturato del segmento è decuplicato nel corso degli ultimi mesi.   

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