«Costretta all'esilio, credo in un futuro per Kabul»

Kubra Khademi, artista originaria di Kabul, ha vissuto sulla sua pelle la degradante realtà della condizione femminile in Afghanistan. Una vita priva di diritti e dettata dalle violenze, anche nel periodo della Repubblica islamica filo-occidentale e prima del ritorno dei talebani. Nel mese di ottobre, Khademi ha partecipato al Festival internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT) con la sua One's own room Inside Kabul, un'esibizione ideata insieme alla giornalista belga Caroline Gillet e artisti anonimi di Kabul. Adornata con cuscini tradizionali, la camera ricostruita da Khademi al LAC ha permesso agli spettatori di compiere un viaggio visivo e sonoro nella fragile quotidianità delle donne afghane.
Con Kubra Khademi abbiamo parlato del suo percorso artistico in una società profondamente patriarcale, fra arte e diritti.
La guerra civile, il primo dominio talebano, l'arrivo degli statunitensi. Da ragazzina ha vissuto in prima persona, sulla sua pelle, gli anni più significativi della storia recente afghana.
«Ai tempi del primo regime talebano era una bambina. Allora, la mia famiglia scappò dall'Afghanistan: ci rifugiammo in Pakistan. Allora dal nostro Paese arrivavano notizie terrificanti che facevano capire come l'Afghanistan non avesse più futuro sotto il controllo dei talebani. Il loro unico linguaggio era il terrorismo. Ma quando non si ha nulla, è più facile sognare in grande: ero una ragazza ambiziosa e come milioni di altre sognavo un Paese costruito da noi stesse. Ero molto brava a disegnare e già mi definivo un'artista».
Poi, nel 2001, l'intervento americano.
«L'arrivo degli statunitensi - promosso con due slogan, combattere il terrorismo e dare diritti alle donne - rappresentò per me una grande promessa, una speranza di salvezza. Con il ritiro dei talebani e la riapertura delle scuole, milioni di persone fecero ritorno in Afghanistan, compresa la mia famiglia. Per noi appartenenti all'etnia hazara - particolarmente perseguitata - tutto ciò significava cominciare a vivere per davvero. Le donne uscivano a lavorare e senza burqa, e di anno in anno aumentava il numero di ragazze che, provenienti da diverse province, studiavano a Kabul. L'età media al momento del matrimonio cresceva molto velocemente perché le donne, improvvisamente, avevano più possibilità e libertà, invece di essere costrette, giovanissime, a sposarsi. Nel 2008, quando entrai alla Facoltà di belle arti, nella mia classe le donne erano più numerose degli uomini. Era qualcosa di incredibile».
Vivere sotto il controllo americano le ha permesso di studiare arte, ma evidentemente non c'era ancora una libertà totale: lo dimostra il fatto che lei è stato costretto a lasciare l'Afghanistan dopo "Armor".
«Sì, la società afghana era ed è profondamente patriarcale, indipendentemente dalla dottrina di terrorismo del regime talebano, che minaccia anche gli uomini non talebani. La reazione alla mia performance "Armor" ne è la prova. Ai tempi della mia esibizione ero consapevole dell'esistenza di questa società patriarcale - l'avevo combattuta anche all'interno della mia stessa famiglia, per il diritto a studiare, o a non sposarmi - ma non immaginavo che "Armor" avrebbe scatenato una reazione di tale forza, che la mia vita sarebbe stata minacciata».
Armor
Se l'avesse saputo, lo avrebbe fatto lo stesso?
«Per me tutto ciò rappresenta un grosso trauma. Non solo il fatto di aver avuto migliaia di persone che aspettavano fuori casa l'onore di uccidermi, ma anche le altre forme di violenza subite, come l'odio ricevuto dai miei amici - anche i più stretti, che sapevano quanto fossi femminista - che mi hanno ripudiata, che dicevano, a chi chiedeva di me, di non conoscermi. È difficile ora, trovare le parole. Come artista non mi sono mai pentita di aver realizzato uno dei miei lavori. Non c'è nessun rimpianto nel fare arte (fa una pausa, ndr). Non mi pento di "Armor". Non sono l'unica artista al mondo ad essere stata minacciata di morte e come molti, prima di fare arte, non calcolo il grado di libertà di cui godrò. Uso molto del mio vissuto nel mio lavoro, ma non si tratta mai di una decisione. Non mi sveglio la mattina pensando "oggi userò i ricordi delle molestie sessuali subite". Esperienze e temi sociali che circondano l'artista si riflettono nell'arte e connettono altre persone attraverso il soggetto. "Armor" mi ha connesso a persecutori e vittime. C'era chi era arrabbiato e pensava che stessi toccando un argomento tabù, e chi - assistendo in silenzio alla performance - vedeva qualcosa che conoscevano. "Armor" spiega come, allora, la società afghana stesse evolvendo rapidamente: non ero un prodotto esterno, avevo 26 anni e venivo dalla stessa società patriarcale, ma alzavo la testa esprimendo la mia visione artistica. Patriarcato e resistenza insieme».
Ora conosce bene anche arte e società europee. Quali riflessi di questo Afghanistan - così avverso alle donne - vede nel nostro continente?
«Anche in Europa alcune mie opere e performance hanno scatenato forti reazioni. Anche qui, la censura è stata usata contro di me. Qui non possono uccidermi, ma possono chiudermi la bocca. Negli ultimi dieci anni mi è successo in diversi casi e ogni volta è una sorpresa».
Come ha vissuto, da lontano, la caduta di Kabul nel 2021? La sua arte è cambiata in base a questi eventi contemporanei?
«Il 2021 è stato un periodo molto, molto duro. Nel 2015 sono fuggita dal mio Paese perché sono stata costretta a farlo, un dolore che non dimenticherò mai. Ma ora si tratta di milioni di vite in pericolo. Milioni di persone, ragazze e donne, che non possono esprimersi. Non riesco a trovare le parole per descrivere quanto sia stato devastante. Sì, in qualche modo tutto ciò si è riflesso anche nel mio lavoro. Ad esempio in Parliament Scene. Il parlamento è il luogo dove si costruisce la Costituzione e dove la dignità di ogni essere umano è considerata e protetta. Per questo ho immaginato il parlamento afghano occupato, conquistato da un'orgia di donne, e che la libertà, così preziosa, si respiri nell'aria, celebrata nell'amore reciproco, nel dare piacere l'una all'altra. Non posso compararmi con chi sta vivendo lì, ma - anche dall'esterno - ciò che sta accadendo in Afghanistan è doloroso. Ma non solo. Vedo anche una disperata resistenza, in ogni angolo di Kabul, nelle scuole illegali che si nascondono in ogni strada. La speranza che un giorno si concretizzi una rivoluzione mi tiene viva e mi spinge a continuare. Un giorno accadrà».
