Dall’11 settembre a Charlie Kirk: come sono cambiate le immagini della violenza

L’11 settembre 2001 il mondo intero assisteva in diretta televisiva a un evento senza precedenti: gli aerei contro le Torri Gemelle, il fumo, il crollo, la fuga disperata della gente. Quelle immagini, trasmesse ovunque, hanno inciso nella memoria di più generazioni e restano un esempio emblematico di come i media abbiano dovuto gestire visivamente il dolore.
Ventiquattro anni dopo, un’altra vicenda — quella della morte di Charlie Kirk — riporta in primo piano, seppur in un contesto del tutto diverso, la questione della gestione delle immagini di violenza. Allora la televisione filtrava, selezionava, decideva cosa mostrare e cosa no; oggi i social network spalancano la scena senza mediazioni: lo sparo, la caduta, le reazioni immediate, riprese dagli smartphone e diffuse in tempo reale.
Come osserva un’analisi pubblicata da NDTV, questo episodio mostra con chiarezza il declino del ruolo tradizionale dei media come «guardiani del cancello». Giornali e tv hanno scelto di non trasmettere le sequenze più crude, ma questo non ha impedito che circolassero ovunque, rilanciate, rallentate, manipolate. I media tradizionali appaiono quindi ormai troppo lenti rispetto alla rapidità con cui i contenuti vengono prodotti e diffusi dagli utenti stessi, che alimentano un flusso senza filtri e senza mediazioni.
Da un lato, l’accesso immediato alle immagini offre la possibilità di osservare i fatti senza filtri e senza attese, ampliando lo spazio dell’informazione. Dall’altro, la stessa immediatezza può diventare problematica: priva di mediazioni o contesto, rischia di trasformarsi in esposizione incontrollata, con immagini che spettacolarizzano la violenza e raggiungono anche chi non ha scelto di assistervi.
Proprio su questo punto si concentra anche uno studio recente pubblicato sulla National Library of Medicine, che analizza l’impatto psicologico dell’esposizione a contenuti visivi traumatici online. La ricerca mostra come la visione ripetuta di immagini violente possa generare ansia, disturbi del sonno, stress emotivo e senso di precarietà anche tra chi non è coinvolto direttamente negli eventi. A rendere il fenomeno più critico è il fatto che, nei feed dei social, queste immagini compaiono spesso senza preavviso e senza la possibilità di evitarle: non si tratta più di scegliere di informarsi, ma di subire. È per questo che alcune piattaforme hanno introdotto sistemi di schermatura, con avvisi o immagini di copertura che segnalano la presenza di contenuti violenti prima di renderli visibili, come previsto ad esempio dalle linee guida di Meta sui contenuti grafici.
Nel 2001 l’impatto delle immagini fu potente perché collettivo, trasmesso da un flusso televisivo unico e autorevole. Oggi lo shock è frammentato, personalizzato, immediato: non nasce dalla catastrofe condivisa, ma dalla violenza privata resa pubblica, moltiplicata e resa virale.
In entrambi i casi riaffiora la stessa tensione: da un lato il diritto all’informazione, dall’altro il rischio della spettacolarizzazione. La differenza sta forse nell’intenzione con cui le immagini vengono rese pubbliche: mostrare o non mostrare non è mai un gesto neutro, ma porta con sé un senso, un messaggio, un perché. È in quell’intento che si gioca la linea sottile tra il raccontare un fatto e il trasformarlo in spettacolo.
Il caso Kirk, letto a distanza dall’11 settembre, ci ricorda che l’informazione non può più limitarsi a raccontare, ma deve interrogarsi sul modo in cui mostra. Allora i mediatori erano le redazioni televisive; oggi la circolazione delle immagini passa per piattaforme digitali e, in ultima istanza, per la scelta degli utenti. Non è quindi solo una questione di accesso, ma di senso: perché quelle immagini vengono condivise, con quale intenzione, e soprattutto perché noi stessi sentiamo il bisogno di guardarle. Sta forse qui la domanda più urgente, chiederci se le immagini ci informano o se, inseguendole, finiamo per nutrire la spettacolarizzazione che vorremmo criticare.