Editoriale

Demografia e previdenza sono terreno di scontro

La capacità di un Paese di creare ricchezza, e quindi crescita economica, dipende anche dal suo andamento demografico
Generoso Chiaradonna
11.05.2024 06:00

Il declino demografico è una caratteristica che coinvolge in modo più o meno marcato tutte le economie avanzate. Il saldo naturale della popolazione, ovvero la differenza tra il numero di nati vivi in un periodo di tempo e quello dei decessi, è negativo in molti Paesi. Una tendenza in atto già da più un decennio. Nell’Unione europea, per esempio, il rinnovo naturale della popolazione, cioè al netto dell’immigrazione, ha una tendenza negativa fin dal 2012 e salvo eventi eccezionali difficilmente realizzabili nel medio periodo, non accenna a cambiare in senso positivo. Per quanto ci riguarda, la Svizzera, presa nel suo complesso, rientrerebbe ancora tra i Paesi europei «virtuosi» in termini crescita naturale della popolazione. Il saldo a fine 2023, gli ultimi dati disponibili, segnava ancora una lieve crescita di 9 mila unità che però è in rapido peggioramento. Alla fine del 2021 il saldo naturale era ancora pari a +18 mila. Se c’è ancora un aumento demografico, lo si deve solo al forte saldo migratorio. Il Ticino fa invece da avanguardia – in senso negativo – rispetto al resto della Confederazione con un saldo naturale in calo di circa un migliaio di persone. E questo ormai da più un decennio.

La capacità di un Paese di creare ricchezza, e quindi crescita economica, dipende anche dal suo andamento demografico: più cresce la sua popolazione, più aumentano i consumi, più si alimenta la forza lavoro e quindi anche la capacità di innovare. E innovazione vuol dire anche più investimenti e più occupazione con i quali finanziare oltre il funzionamento di uno Stato anche e soprattutto il sistema di protezione sociale. Viceversa, un calo della popolazione o il suo mancato rinnovo naturale, porta lentamente e inesorabilmente al declino non solo economico, ma anche umano e culturale. Come potrà una popolazione in cui gli anziani prevalgono sempre più sui giovani avere forze, idee e risorse per mantenere i suoi livelli di benessere? Non per nulla i sociologi hanno coniugato un termine per indicare in modo quasi percepibile questo fenomeno che tocca in modo più sensibile, come detto, il mondo occidentale: l’inverno demografico ovvero una società caratterizzata da un rapido invecchiamento della popolazione e dove i giovani saranno quasi una rarità.

Questo fenomeno è in corso. Si potrà tentare di invertire solo con politiche pubbliche mirate che però non si vedono all’orizzonte. Non si tratta di convincere chi non desidera mettere al mondo dei figli, che è una scelta legittima, ma di non penalizzare chi invece li vorrebbe e che spesso è scoraggiato da una struttura sociale che ricalca però archetipi ormai superati e che si fa fatica ad abbattere. Basta pensare, su tutto, all’organizzazione degli orari scolastici che – almeno in Ticino – sono a tempo pieno soltanto sulla carta. Mense e servizi di assistenza doposcuola per colmare i momenti fondamentali della giornata, non sono per nulla capillari. Ciò impedisce, per esempio, il pieno sviluppo del potenziale umano per quanto riguarda il mondo del lavoro. In una famiglia, uno dei due genitori è quindi costretto a lavorare a tempo parziale e generalmente chi fa il passo indietro dal punto di vista professionale è la donna con tutte le conseguenze del caso in termini di mancata carriera, diminuzione del reddito e vuoti pensionistici. Intanto, però, gli effetti della tendenza all’invecchiamento della popolazione si vedono nell’esplosione dei costi della salute e nelle difficoltà di finanziamento dei sistemi previdenziali.

In tutte le economie sviluppate la previdenza per la vecchiaia – almeno quella pubblica – è finanziata in modo solidaristico: la generazione di chi è in quel momento nella vita attiva versa dei contributi a favore di un fondo che poi redistribuisce a favore della generazione che l’ha preceduta. Nella realtà svizzera a questo primo pilastro sociale se ne aggiungono altri due: la previdenza professionale collettiva e quella individuale che a loro volta dovrebbero alimentarsi, almeno il secondo pilastro, anche dei premi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro. Il terzo è puro risparmio e segue logiche legate al reddito: chi guadagna di più, ha capacità di risparmio più alte. Ora con l’invecchiamento della popolazione e il prolungamento della vita media – che è una conquista dalla modernità – i primi due pilastri previdenziali sono sottoposti a pressioni evidentissime e fotografate nell’andamento struttura della popolazione. Non per niente la demografia è chiamata anche la «storia del futuro». Senza correzioni e innovazioni anche creative – l’aumento della produttività del lavoro, per esempio, grazie alla robotizzazione e allo sviluppo dell’intelligenza artificiale è un dato di fatto di cui spesso non si tiene conto nell’immaginare le riforme –, si rischia di trasformare la previdenza in una battaglia intergenerazionale che però perderanno i giovani per il solo fatto che sono di meno e per giunta poco propensi a recarsi alle urne.

Nelle prossime settimane, dopo l’approvazione a furor di popolo dell’iniziativa sulla tredicesima AVS di marzo scorso, potremmo avere un’altra cartina di tornasole sull’attuale scontro intergenerazionale con il referendum nazionale contrario all’abbassamento dell’aliquota di conversione del capitale previdenziale e quello cantonale sul finanziamento dell’Istituto di previdenza del Cantone Ticino.