È boom di riacquisto azioni, ecco chi ci guadagna

L'’entusiasmo delle società quotate alla Borsa svizzera per i programmi di riacquisto di azioni proprie («share buyback») non diminuisce. Solo nel 2022, infatti, la Commissione delle offerte pubbliche d’acquisto (COPA, l’autorità federale istituita dalla Finma che esamina il rispetto delle disposizioni in materia di acquisizioni societarie) ha approvato ben 22 nuovi programmi per un volume complessivo massimo di 37,5 miliardi di franchi, il doppio rispetto al 2021, mentre quelli in corso sono attualmente 21, per un volume di circa 50 miliardi di franchi.
Sono cifre importanti e qualche domanda sorge spontanea: è un bene che una società investa i suoi utili (o altra liquidità) nel riacquisto delle proprie azioni anziché nella propria attività? «Non bisogna pensare che ci sia qualcosa di sinistro dietro queste operazioni», afferma Giovanni Castellino, responsabile Asset Management presso PKB Private Bank a Lugano. «L’azienda che ricompra le proprie azioni sta di fatto restituendo capitale ai suoi azionisti. In fondo è solo una modalità alternativa di agire rispetto al versamento di un dividendo, ma con effetti diversi: in diversi regimi fiscali (significativo è l’esempio degli Stati Uniti) il riacquisto di azioni ha un impatto fiscale diverso rispetto al pagamento del dividendo», precisa l’esperto.
Ciò potrebbe spiegare la riduzione del divario tra questi due tipi di remunerazione degli azionisti: come rilevato dalla Banca nazionale svizzera, cinque anni fa i dividendi rappresentavano 37 miliardi di franchi in più rispetto ai programmi di riacquisto, mentre nel 2022 il divario si è ridotto a 10,5 miliardi.
Dall’ultimo rapporto della COPA relativo al 2022 spiccano alcuni nomi e programmi quali il gruppo ginevrino del lusso Richemont, che fino al 2026 offre il riacquisto di 10 milioni delle sue azioni di categoria A in circolazione, oppure il colosso industriale ABB che lo scorso aprile ha lanciato un programma da un miliardo di dollari fino al 2024. E ancora: Logitech dallo scorso giugno offre un miliardo di dollari fino al 2026; Lonza ha messo sul tavolo due miliardi all’inizio di aprile fino al 2025; e Novartis 10 miliardi di franchi entro il 2026.
Come spiega ancora Castellino, «i riacquisti di azioni proprie si possono fare solo con le risorse libere, come ad esempio gli utili non ancora distribuiti. Questo, assieme al fatto che sono operazioni che sottostanno a leggi specifiche e sono possibili solo con l’approvazione di organi di vigilanza, significa che chi lo fa è un’azienda generalmente sana».
Come si evince dal rapporto della COPA, le operazioni di «share buyback» hanno un orizzonte temporale che copre generalmente diversi anni, come nel caso di Novartis, azienda che l’Asset Manager di PKB Private Bank, Sascha Kever, segue da vicino: «Il gruppo farmaceutico basilese ha lanciato un programma della durata di ben tre anni, quindi a medio-lungo termine, allo scopo di ottimizzare la situazione societaria. In altre parole, Novartis ha molta liquidità e la “investe” in se stessa anziché all’esterno perché verosimilmente non ne vede il bisogno, dato che la società è probabilmente valutata in modo adeguato o comunque vede davanti a sé un’evoluzione positiva».
Restando in Svizzera, Kever osserva che «quello elvetico è un mercato finanziario di “duration” lunga, con società ben capitalizzate, specie in questa fase dopo periodi positivi relativamente lunghi per quanto riguarda gli utili. È nomale quindi che i responsabili degli investimenti delle aziende procedano con i programmi di riacquisto. Devo dire che in Svizzera, dove i rendimenti societari sono già relativamente alti, queste operazioni vanno “a braccetto” con le classiche distribuzioni di dividendi, un bilanciamento quindi che è solitamente buono per gli azionisti».
Argomenti convincenti, ma come la mettiamo con gli investitori istituzionali, come le casse pensioni ma anche i fondi d’investimento collettivi, che davanti al «drenaggio» di azioni dalla Borsa rischiano di trovarsi ridotte le possibilità di investimento nel comparto azionario? «I riacquisti azionari riguardano necessariamente una parte limitata del capitale e le autorità di vigilanza come la COPA sono lì proprio per evitare che le società che li fanno mantengano livelli adeguati di capitalizzazione e di flottante sul mercato», dice infine Giovanni Castellino, seguito dal collega Kever che sottolinea come nel caso di Novartis il riacquisto da 10 miliardi di franchi equivale a «solo» il 5% del totale del capitale azionario.
Perché allora il gruppo farmaceutico basilese continua a fare riacquisti anche abbastanza importanti? Ancora Kever: «Per vent’anni Novartis aveva una partecipazione rilevante in Roche, che è stata decisamente un valore aggiunto anche per i suoi azionisti. Alla decisione di vendere questa partecipazione, Novartis si è trovata diversi miliardi di franchi in cassa ma, trovatasi di fronte alla mancanza di un obiettivo chiaro d’investimento nel proprio segmento che potesse offrire valore ai suoi azionisti, tenere questa importante somma “ferma” e non redditizia a causa dei tassi d’interesse ancora relativamente bassi era anti-economico. Paradossalmente il valore aggiunto per Novartis e per i suoi azionisti è proprio quello di riacquistare parte delle azioni perché il valore della società rimane così più solido, cioè nell’interesse della stessa», conclude Sascha Kever.
