E se il comandante di Air India avesse voluto far cadere il Boeing 787?

A far schiantare il Boeing 787-8 di Air India poco dopo il decollo da Ahmedabad, lo scorso 12 giugno, è stato il comandante Sumeet Sabharwal? Le indagini, come rivelato dai media internazionali, fra cui il Wall Street Journal, si stanno concentrando sempre di più sulle azioni dell'esperto pilota. Il volo AI 171, ricordiamo, si è tragicamente interrotto nello spazio di trenta secondi. Il Dreamliner con a bordo 242 persone fra passeggeri ed equipaggio è finito su uno studentato medico nell'area di Meghani Nagar, una zona residenziale densamente popolata adiacente allo scalo. Le indiscrezioni, dicevamo, riferiscono di una conversazione avvenuta in cabina fra il primo ufficiale, Clive Kundar, ai comandi del Boeing, e lo stesso Sabharwal. Sarebbe stato quest'ultimo, leggiamo, ad aver spento gli interruttori del carburante. Perché? E ancora: davvero, come peraltro già accaduto in passato, la tragedia è stata provocata da un gesto intenzionale? Per capirne di più, ci siamo rivolti al Professor Andrea Castiello d’Antonio, specializzato in psicologia dell’aviazione.
Professore, sappiamo che entrambe le leve del carburante sono state portate su «CUTOFF» manualmente poco dopo il decollo, un’azione ritenuta altamente improbabile se non addirittura deliberata: quali sono i fattori psicologici che, secondo lei, potrebbero indurre un pilota a compiere un gesto estremo come questo? Quali segnali psicologici o comportamentali sono più significativi in questi casi?
«Sposando l’ipotesi dell’azione deliberata si deve pensare a fattori di natura ansiosa o depressiva. Nel senso che un attacco di angoscia nel momento delle fasi di rullaggio e decollo potrebbe indurre il pilota a un gesto semi-automatico di fuga dalla situazione, naturalmente del tutto irrazionale, con l’intenzione implicita – pur se folle – di non partire, di tornare con le ruote per terra. Una grave situazione depressiva potrebbe, invece, essere la causa di un’azione consapevolmente pianificata, o almeno precedentemente immaginata, e poi messa in atto all’improvviso, proprio nelle prime fasi del decollo, cioè in una situazione in cui è realisticamente impossibile tornare indietro e recuperare la situazione. In entrambi i casi può essere molto difficile decodificare segnali di allarme soprattutto da parte di chi non è del mestiere, psicologico e psichiatrico. In ogni caso, mentre gli stati di angoscia sono generalmente più facilmente visibili per i loro effetti di agitazione sul comportamento abituale, gli stati depressivi possono passare quasi del tutto inosservati».
Il comandante Sumeet Sabharwal era prossimo alla pensione, in lutto per la perdita della madre, e avrebbe manifestato sintomi di depressione negli ultimi anni: in che modo uno psicologo dell'aviazione valuta la potenziale influenza di fattori personali e psichici su comportamenti critici in cabina di pilotaggio? Qual è il confine tra crisi esistenziale, depressione e rischio comportamentale?
«L’unica reale e affidabile soluzione al problema di personale di condotta – comandanti e primi ufficiali – psicologicamente potenzialmente disturbati a causa di eventi esterni, come un lutto familiare, è quella di procedere con costanti assessment psicologici e di avere a disposizione un supporto professionale psicologico esperto che certo non si può e non si deve ridurre al cosiddetto peer support. Proprio perché, in ogni essere umano, i confini tra scoramento, demoralizzazione, sconforto, tristezza, delusione, prostrazione, avvilimento, malinconia, depressione (lieve, moderata e grave), fino alle idee suicidarie (che possono essere verbalizzate anche in stati di depressione lieve e di scoramento esistenziale) sono estremamente sfumati, solo l’insieme di assessment e coaching, cioè di valutazione psicologico-psichiatrica ricorsiva e di supporto consulenziale psicologico, possono ridurre questi rischi. Inoltre, ogni persona possiede le proprie capacità di coping e un modo peculiare in cui vive determinati accadimenti; quindi, uno standard generico non aiuta molto, così come non aiuta molto effettuare valutazioni saltuarie dato che lo stato d’animo delle persone è soggetto a cambiamenti continui ed imprevedibili».


Dal caso Germanwings fino al volo Air India, il tema del suicidio riemerge di tanto in tanto nel settore dell'aviazione. Quanto è possibile, secondo lei, quantificare il rischio di eventi simili e quali misure preventive psicologiche specifiche (screening, supporto continuo, ecc) funzionano davvero?
«Credo che al momento attuale non si abbiano reali strumenti da poter impiegare per una quantificazione complessiva del rischio, al di là dei profili psicologici sotto forma di report analitici che si muovono su scale specifiche che vanno da un minimo a un massimo, così come sono quelli che scaturiscono dalla somministrazione dei maggiori questionari di personalità, dal famoso MMPI ad altri meno conosciuti ma ugualmente importanti, compresi alcuni test sviluppati appositamente per il personale di volo che mi sembrano attualmente poco noti e poco diffusi. Il punto centrale è proprio la prevenzione. Si gioca tutto sulla prevenzione, così come nel campo più ampio della sicurezza (aerea e non). Ma per fare vera prevenzione – e non ottemperare burocraticamente a qualche regolamento – si deve essere convinti della sua utilità, si deve spendere tempo e denaro, si devono coinvolgere figure specializzate in ogni campo, medico, psichiatrico, psicologico, aeronautico, dando la possibilità al pilota in difficoltà di rivolgersi riservatamente a professionisti qualificati».
In India come altrove esistono programmi di peer support e l’obbligo di revisione medica biennale/semestrale, ma molti piloti non dichiarano problemi per non essere sospesi. Come si rompe questo circolo vizioso di stigma, timore di perdere il lavoro o il salario, e silenzio auto-imposto? Come progettare un sistema che incoraggi l’auto-segnalazione senza penalizzare la carriera?
«Il problema di eludere la segnalazione di disagi mentali, esistenziali o semplicemente comportamentali è antico ed è presente non solo nel campo dell’aviazione ma anche nel campo militare e delle forze di sicurezza, lì ove un soggetto che dichiari disagio psichico viene subito privato dell’arma e sottoposto a restrizioni operative, controlli e così via, oltre a essere posto in una situazione in cui è visto (cioè, è percepito come malato) dai superiori e dai colleghi. I sistemi in cui si mette a disposizione del pilota una rete professionale di psicologi e psichiatri a cui potersi rivolgere privatamente – possibilmente con un supporto economico da parte della compagnia aerea – rappresentano già un passo in avanti. Ma, in questi casi, emerge un ulteriore problema: il punto critico si pone sulle spalle del professionista della salute mentale a cui il pilota in difficoltà si rivolge privatamente il quale può/non può, o deve/non deve segnalare un soggetto che giudica, momentaneamente, inabile al volo. Anche su questo aspetto, incredibilmente, non vi è certezza. Devo però dire che, a differenza del passato, vedo diversi piloti, in compagnie svizzere e straniere, che nei momenti di crisi esplicitano il proprio stato alla struttura medico-psicologica deputata, sono posti e si pongono in situazione di aspettativa, per così dire, intraprendendo un percorso che spesso è – giustamente – psicoterapeutico e psicofarmacologico insieme».


I piloti affrontano forti stress da fatica, fusi orari, alta complessità tecnologica e cultura operativa che scoraggia la vulnerabilità. Secondo lei, quali cambiamenti organizzativi e culturali potrebbero ridurre il rischio psicologico sistemico nel lungo termine?
«È ormai sul finire l’epoca dei cosiddetti comandantoni, persone che nel ruolo di comando erano totalmente auto-centrate, trattavano il copilota in modo supponente e autoritario, ponendo in essere quella pericolosissima power distance che è stata responsabile di alcuni disastri aerei. Si deve però anche evitare di affermare che il ruolo del pilota è, ormai, facile e semplice, del tutto automatizzato, quasi un autista di bus… Non è affatto così, basti pensare alla necessità della formazione denominata CRM – Crew Resource Management che si è resa necessaria e obbligatoria per far fronte a rischiose distorsioni gestionali e comunicazionali tra i membri dell’equipaggio e tra cielo e terra. Il CRM si colloca, appunto, nell’ottica della prevenzione. Sarebbe molto utile, nel concreto, avere le registrazioni non solo audio ma anche video del lavoro dei piloti in cockpit, ma la soluzione del problema si gioca, credo, tutta nella classica pentade Selezione / Formazione (Addestramento) / Valutazione / Gestione / Sviluppo. Tutte fasi in cui la professionalità psicologica gioca un ruolo importante. Sarebbe, quindi, apprezzabile ed intelligente evitare di contrapporre, nei casi di incidenti e disastri aerei, le cause tecniche alle cause relative al fattore umano, come se fossero due fattori che non possono coesistere».