L'intervista

«È un film sui sentimenti politici, ma non solo»

L'incontro con Nanni Moretti, regista tra i protagonisti del recente Festival di Cannes con «Il sol dell'avvenire»
© REUTERS/Sarah Meyssonnier
Max Armani
02.06.2023 06:00

Pur non portando a casa riconoscimenti, Nanni Moretti è stato tra i protagonisti del recente Festival di Cannes con Il sol dell’avvenire che, finalmente, in questi giorni è arrivato anche sui grandi schermi ticinesi (da regolamento le produzioni presentate a Cannes, infatti, possono uscire dai confini nazionali solo dopo la «passerella» sulla Casta Azzurra). Un segno tangibile dell’interesse di cui gode il regista romano e che va oltre la sua schiera di fan abbracciando una platea molto più vasta che si riconosce in lui, in quanto nei suoi film (e Il sol dell’avvenire non sfugge alla regola) Moretti, raccontando se stesso, racconta anche gli altri anche «per strade che non avevo neppure cercato». Lo abbiamo intervistato.

Il sol dell’avvenire è un film politico, o un film d’amore?
«È un film sul cinema che nasce da un sentimento politico e tante altre cose insieme. Da molti anni avevo in mente un film su quell’autunno del 1956, e, prima di Tre piani, con le sceneggiatrici Federica Pontremoli e Valia Santella con le quali lavoro da anni, tentammo di scriverlo, ma poi lo mettemmo da parte. Così per questo film ho mantenuto l’ambientazione nel ’56, ma ho deciso che, sopra, sotto e di fianco volevo raccontare anche la storia del regista del film, Giovanni».

Quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina il vostro film è cambiato?
«La prima stesura del film è finita prima di Cannes 2021, l’invasione dell’Ucraina è avvenuta il 24 febbraio 2022, io ho iniziato a girare i primi di marzo del 2022. Forse abbiamo aggiunto una frase al personaggio di Barbora Bobulova. Però nella scena girata a Piazza Mazzini, non dico più che “mi sembra un po’ la Budapest degli anni ’50 e già vedo i carri armati avanzare su per Viale Carso”, quella l’ho tolta, perché mi faceva impressione. Come sempre, girando, incontrando gli attori, riflettendo sulle scene, si fanno dei cambiamenti: così è stato per il personaggio del giovane regista di film di violenti; come pure per la scena del “film delle canzoni” girato nel quartiere Mazzini, dove il ragazzo e la ragazza dovevano essere ripresi durante una litigata, mentre le loro parole si perdevano nel rumore. Nel film, adesso, io sono in scena dietro a loro e gli suggerisco le battute. Anche il finale del film, doveva essere diverso».

E Giovanni, il regista che lei interpreta chi è?
«Giovanni è molto vicino a me. Io mi chiamo Giovanni ed è un film autobiografico anche nei dettagli. La ricerca di Giovanni è anche la mia: scrivendo e girando il film non avevo in mente degli schemi narrativi, ho scelto di prendermi tutte le libertà che volevo. E questa volta volevo raccontare tanti sentimenti insieme, avere tutti questi personaggi e tutti questi pezzi di film, quattro film insieme. Volevo raccontare tutto questo e stilisticamente sapevo che avrei girato ogni film in maniera diversa. Così interpreto un film sui fatti del ’56 e canto una canzonetta di Aretha Franklin e anche molte altre. Ma non so perché ho scelto quelle canzoni, non sono più così bravo a teorizzare e a spiegare ogni cosa come una volta».

La sua avversione per le piattaforme è nota, ma hanno avuto un ruolo importante durante la pandemia, e adesso?
«Le piattaforme vanno bene per le serie, i film si devono fare per il cinema. Io ho sempre reagito andando contro quella che era l’onda: a metà degli anni ’80 erano pochi i film italiani radicati sul territorio, si facevano film fintamente internazionali, anche nel cast. La tendenza dominante era di fare film che per piacere a tutti finivano per non piacere a nessuno e io ho reagito con una mia casa di produzione e due film: Notte italiana e Domani accadrà. Qualche anno dopo i cinema chiudevano, era il trionfo delle videocassette legali, o pirata, ed io nel ’91 ho aperto la mia sala, il Sacher. Più di 15 anni fa quando gli esordienti in Italia non se li filava nessuno, ho fatto il festival dei registi esordienti: Bimbi Belli. Anche in questo momento di difficoltà delle sale, io ho fatto finta di niente e ho continuato a pensare, scrivere, girare, montare un film per gli spettatori che sia visto in un cinema. Insomma cerco sempre di non preoccuparmi troppo di quello che mi accade intorno».

Nel film lei gira per Roma su un monopattino elettrico, perché non in Vespa?
«La mia Vespa di Caro Diario è in pensione al Museo del Cinema di Torino e il monopattino ho imparato ad usarlo solo per quella scena, una scelta degli sceneggiatori. Uso ancora una Vespa, anche se non è vecchia come l’altra».

Nel finale cambiato del film lei saluta il pubblico, è un addio?
«L’ultima ventina d’inquadrature non erano previste in sceneggiatura, il film doveva finire con la parata in via dei Fori Imperiali di alcuni personaggi. Io ho girato la scena e poi ho pensato: perché non farli tornare tutti? E così l’ultimo giorno ho girato una scena con i produttori coreani, Palmiro Togliatti e tutti gli altri. Dopo però mi sono detto: e gli attori degli altri miei film, perché no? E poi mentre giravo mi è venuto in mente di partecipare, vestito come negli anni ’50, e in quel ciak che è stato montato mi è venuto di guardare in macchina e di salutare. Diciamo che con quel saluto chiudo questa primissima fase della mia carriera, a cui seguirà la seconda, di un’altra cinquantina d’anni, e forse anche una terza».  

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