L'approfondimento

Bitcoin e cripto, tutti i rischi dei «tesori digitali»

Sempre più società quotate investono parte dei loro attivi in valute elettroniche allo scopo dichiarato di attirare investitori verso i propri titoli – Ma attenzione, in questo modo passa in secondo piano il «core business» delle imprese
© Carlo Reguzzi
Dimitri Loringett
16.10.2025 21:32

Appena dieci giorni fa aveva raggiunto un nuovo massimo storico, a 126 mila dollari. Oggi viene scambiato attorno a 110 mila, ma gli investitori guardano già al prossimo rally della principale criptovaluta al mondo: il Bitcoin. E non solo gli investitori: anche alcune società quotate che hanno deciso di accumulare bitcoin nei propri bilanci come strategia di rilancio. Dalle biotecnologie alle società minerarie, passando per hotel e startup energetiche, sempre più aziende – perlopiù statunitensi, va detto – stanno convertendo parte dei loro attivi in criptovalute, con l’obiettivo di attirare investitori e dare una spinta alle proprie quotazioni. Ma dietro l’apparente euforia si nascondono rischi sistemici e interrogativi strutturali.

Secondo i dati raccolti dalla società di cripto-consulenza americana Architect Partners, nel solo anno in corso oltre 150 aziende quotate hanno raccolto o impegnato oltre 98 miliardi di dollari per acquistare criptovalute, principalmente bitcoin. Un incremento significativo rispetto ai 33,6 miliardi raccolti da appena 10 aziende negli anni precedenti. In totale, stando sempre ad Architect Partners, le imprese quotate detengono oggi circa 950 mila bitcoin, pari a oltre il 5% dell’offerta circolante globale.

Il caso Sequans Communications

Un esempio emblematico è quello di Sequans Communications, società francese specializzata nella tecnologia cellulare wireless 4G/5G per l’Internet delle cose (IoT), quotata alla Borsa di New York. Dopo una serie di difficoltà finanziarie e un accordo commerciale con Qualcomm per la vendita della sua tecnologia 4G IoT che ha deluso gli investitori, il CEO Georges Karam ha deciso di puntare tutto sul Bitcoin. La società ha raccolto circa 384 milioni di dollari attraverso un piazzamento privato (capitale proprio e debito convertibile) con l’esplicito obiettivo di acquistare criptovalute. Il risultato: un balzo di oltre il 200%, fra fine giugno e metà luglio scorso, del titolo in Borsa. Ma nel giro di un paio di settimane, il titolo è crollato, addirittura sotto i livelli di inizio anno, segnando una performance negativa di oltre il 75 percento.

MicroStrategy ha fatto scuola

Michael Saylor, fondatore di Strategy (già MicroStrategy) è stato fra i primi imprenditori ad aver iniziato questa corsa al «tesoro digitale»: dal 2020 ha trasformato la sua la azienda di servizi informatici in una vera e propria «cassaforte digitale». Strategy detiene oggi oltre 640 mila bitcoin, tre volte quante ne deteneva meno di un anno fa (cfr. CdT del 12.12.2024) e la sua capitalizzazione ha superato i 115 miliardi di dollari, più del valore dei bitcoin posseduti. Il prezzo dell’azione è salito di oltre il 1.700% da quando Saylor si è votato al Bitcoin, ma nell’ultimo anno e mezzo circa la quotazione è stata altalenante, verosimilmente perché segue quella del bitcoin.

Un’evoluzione, questa, che pone qualche domanda sul vero valore di questa e altre aziende che hanno adottato simili strategie. E andando anche oltre: molte di queste cosiddette «bitcoin treasury company» stanno cambiando persino i colori del proprio sito web in arancione – il colore simbolo del bitcoin – e pubblicando sui loro siti web schermate con metriche come «bitcoin per azione», un nuovo indicatore che misura quanti bitcoin corrispondono a ogni azione posseduta.

Speculazione o innovazione?

Per gli investitori, le bitcoin treasury company rappresentano una porta d’ingresso alternativa al mondo cripto, soprattutto in contesti regolamentati. In alcuni Paesi, come Giappone e Brasile, la tassazione sui guadagni da criptovalute è significativamente più alta rispetto a quella sui titoli azionari. In Giappone, ad esempio, le plusvalenze da cripto possono essere tassate fino al 55%, contro il 20% delle azioni. Questo ha spinto molti investitori a cercare esposizione indiretta al Bitcoin attraverso aziende quotate, sfruttando un arbitraggio fiscale. Inoltre, in mercati dove gli ETF su criptovalute sono vietati – come nel Regno Unito e in Giappone – l’acquisto dei titoli di queste aziende rappresenta un’alternativa regolamentata per accedere al mondo cripto. In Svizzera, il possesso di criptoasset è equiparato a patrimonio finanziario come azioni, valute, oro eccetera e quindi tassato secondo le norme sull’imposizione della sostanza.

Lo spettro della bolla Internet

Nonostante l’entusiasmo, analisti ed esperti di mercato mettono in guardia del fatto che il fenomeno è per molti versi paragonabile alla bolla Internet e delle dot-com di fine anni Novanta. Il principale rischio, sostengono, è che molte di queste aziende stanno finanziando l’acquisto di bitcoin con debito, scommettendo su una continua crescita del prezzo della valuta digitale, dopodiché si trovano tipicamente nella situazione di dover continuare ad acquistare i bitcoin per giustificare il prezzo azionario maggiorato, un ciclo che si autoalimenta ma che può facilmente collassare. Se il mercato dovesse infatti invertire la rotta, le conseguenze potrebbero essere gravi: insolvenze, vendite forzate di attivi e potenziali effetti sistemici.

La bolla delle dot-com, lo ricordiamo, scoppiò nel 2000, provocando una fase ribassista in Borsa durata quasi due anni e facendo «evaporare» circa 5 mila miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato.

Nigel Farage si ispira agli USA e sogna una riserva in Bitcoin

Durante il Digital Asset Summit tenutasi questa settimana a Londra, Nigel Farage, leader di Reform UK, ha dichiarato di voler diventare il «campione» del settore cripto nel Regno Unito, proponendo una serie di misure volte a integrare le criptovalute nel sistema economico britannico. Tra le proposte principali figura la creazione di una riserva nazionale di bitcoin, finanziata con circa 5 miliardi di sterline in bitcoin confiscati dalle autorità a criminali. Farage ha inoltre presentato un disegno di legge che prevede una tassa fissa del 10% sui guadagni da criptovalute e la possibilità di pagare le imposte direttamente in cripto. L’iniziativa si inserisce in un contesto in cui anche l’amministrazione USA sta valutando la creazione di una riserva federale di bitcoin, basandosi anch’essa sui token confiscati. Farage ha inoltre criticato duramente i progetti della Banca d’Inghilterra relativi alla creazione di una valuta digitale centrale, definendoli «un incubo autoritario». Ha inoltre promesso di bloccare tali iniziative qualora Reform UK vincesse le elezioni generali previste per il 2029. Il partito è attualmente l’unico tra le principali formazioni politiche britanniche ad accettare donazioni in criptovalute.