I mercati, per ora, credono a un'intesa «ragionevole»

La giornata in Borsa è iniziata con il peggiore degli auspici: -2% in apertura dell’indice SMI. A pesare sui listini sono stati soprattutto i titoli dell’industria orologiera e del lusso (come Richemont), il chimico-farmaceutico (Roche, Lonza e Sika, in particolare) e quello industriale (ABB, Amrize), ma anche del finanziario, con Partners Group e UBS. Prima di mezzogiorno aveva recuperato gran parte delle perdite. Alla chiusura si segnava un «sopportabile» -0,15%. Insomma, l’effetto annuncio dei dazi di Trump è stato per ora assorbito, segno che si crede in un’intesa.
«La Borsa svizzera ha comunque “incassato meglio” il colpo rispetto a quelle europee», commenta Arthur Jurus, economista e responsabile dell’Ufficio investimenti presso la banca privata ODDO BHF. Zurigo, va detto, era ferma per la Festa nazionale, venerdì scorso, mentre i listini europei avevano chiuso in profondo rosso, dal -2,91% di Parigi al -2,65% di Francoforte e dal -2,55% di Milano al -1,9% dell’indice paneuropeo Stoxx 600 (che ha segnato il maggior calo infrasettimanale dal «Liberation Day» di inizio aprile). «Il mercato ha reagito in maniera tutto sommato contenuta», replica dal canto suo Sascha Kever, Chief Investment Officer di PKB Private Bank. «Diciamo che oggi, con il rimbalzo dei listini europei, il mercato azionario svizzero ha “approfittato” della chiusura di venerdì». E infatti il superindice europeo ha chiuso in rialzo dello 0,90%.
In attesa di capire come (e se) il Governo svizzero riuscirà a trovare un’intesa più «ragionevole» con Washington, l’esperto di PKB ritiene che la «diatriba» sui dazi è «la solita tempesta in un bicchiere d’acqua. Con tutti i Paesi si è assistito al classico “tira e molla”, spesso arrivando a decisioni all’ultimo minuto. Fa parte della strategia di Trump, peraltro già ampiamente documentata nel suo famoso libro The Art of the Deal». Sascha Kever rimane comunque «costruttivo» sull’esito delle trattative che si svolgeranno nei prossimi giorni tra Berna e Washington. «Determinante sarà l’intesa che si troverà, oppure no, nel settore chimico-farmaceutico», sostiene l’analista. «Data la posta in gioco e le dimensioni del settore, non mi sorprenderei se il termine del 7 agosto portasse a un altro accordo oppure se la scadenza venisse prolungata». Kever ricorda che circa il 10% dei farmaci che gli Stati Uniti importano dall’estero provengono dalla Svizzera. «Parliamo non di generici ma di prodotti di alta gamma, di cui i pazienti d’oltre Atlantico hanno bisogno. Inoltre, i due big player Roche e Novartis hanno annunciato l’intenzione di espandersi negli USA per produrre in loco. Credo quindi sia più probabile che un’intesa sui dazi venga trovata che non il contrario». Se, tuttavia, non si dovesse trovare un’intesa, l’impatto sarebbe tutt’altro che lieve per i colossi basilesi, come spiega Arthur Jurus: «Il franco svizzero forte, unito alla pressione tariffaria, danneggia la competitività delle esportazioni. Sebbene sia improbabile una forte recessione, lo shock potrebbe comprimere i margini aziendali fino a 800 milioni di dollari l’anno per Novartis e oltre 1 miliardo di franchi per Roche entro il 2026».
Per quanto essenziali, la Svizzera non vive «solo» dei grandi gruppi chimico-farmaceutici. Anzi, la spina dorsale dell’economia svizzera è costituita dalle PMI, molte delle quali sono pure quotate in Borsa. L’indice allargato, lo Swiss Performance Index (SPI), oggi ha pure chiuso in leggero ribasso (-0,23%), ma rispetto allo SMI l’andamento da inizio anno è stato nettamente superiore, guadagnando circa il 6%, mentre lo SMI si trova ancora in territorio negativo (-1,4% circa). Ancora Kever: «Il principale mercato delle aziende svizzere, specie le PMI, è l’UE, dove ci sono tuttora interessanti prospettive; penso in particolare ai piani di investimenti infrastrutturali in Germania».
Le pressioni tariffarie, più o meno forti che siano, tendono ad accentuare la fase disinflazionistica che la Svizzera sta da tempo vivendo, con l’inflazione a tassi da «prefisso telefonico» e la Banca nazionale che potrebbe dover ancora intervenire, magari già a settembre, con un’ulteriore riduzione del tasso guida che andrebbe così in territorio negativo. «La scorsa settimana - spiega infine Arthur Jurus - la BNS ha pubblicato sul proprio sito web un documento di lavoro che spiega come, anche con un tasso d’interesse negativo, sia in grado di mantenere l’efficacia della sua politica monetaria senza sconvolgere il sistema finanziario. La pubblicazione del documento, con un timing piuttosto puntuale, è un segnale che la BNS sta pensando ai tassi di interesse negativi in modo rapido e urgente. Ritengo quindi che la possibilità di una riduzione di ulteriori 25 punti base non è da escludere a settembre».