L'editoriale

La fiducia è una moneta che non si può stampare

Donald Trump non è più da mesi in campagna elettorale. È il presidente degli Stati Uniti. Ed è alla guida della più grande economia del mondo in un momento in cui i mercati finanziari sembrano vivere in una curiosa sospensione
Generoso Chiaradonna
27.06.2025 06:00

Donald Trump non è più da mesi in campagna elettorale. È il presidente degli Stati Uniti. Ed è alla guida della più grande economia del mondo in un momento in cui i mercati finanziari sembrano vivere in una curiosa sospensione: registrano le sue dichiarazioni, ne ridimensionano gli effetti e poi tornano a comportarsi come se nulla fosse. C’è chi la chiama «resilienza», ma forse è soltanto una pericolosa assuefazione a una serie di shock (guerre lampo con l’Iran, crisi geopolitiche che si trascinano da ormai troppo tempo). Oppure è semplicemente perché l’irruenza politica di Trump - sia quando interviene all’interno del suo Paese, sia quando si occupa delle questioni internazionali - è stata, come si dice in gergo finanziario, ampiamente scontata e digerita.

Insomma, fa parte del particolare momento storico che stiamo vivendo. Ma quando si tratta della Federal Reserve, questo atteggiamento non è solo pericoloso: è miope. L’ennesimo affondo della Casa Bianca contro la banca centrale statunitense - che nei giorni scorsi ha preso la forma di critiche pubbliche alla politica dei tassi, giudicati sempre troppo alti, e al ruolo di Jerome Powell - dovrebbe accendere un allarme ben più forte di quello che oggi si percepisce tra investitori e commentatori.

Siamo di fronte a un presidente in carica che sembra voler minare, con costanza e metodo, l’autonomia di uno degli ultimi baluardi di credibilità istituzionale rimasti negli Stati Uniti. Certo, si può sempre sostenere che un dollaro più debole, frutto di tassi più accomodanti, possa dare fiato all’economia reale, alleggerire il carico del debito federale e facilitare l’export. Tutto vero, almeno in teoria. Ma in questo momento gli Stati Uniti non possono rinunciare al flusso dei capitali dall’estero che da anni finanzia il loro deficit pubblico, e la moneta americana resta forte anche per l’autorità - e l’autorevolezza - dell’istituzione monetaria che la governa.

Non pochi analisti pensano che, se la lotta tra Trump e Powell diventasse strutturale, non episodica, potrebbe aprirsi una crisi seria. Il dollaro non ha ancora concorrenti pronti a prenderne il posto uno a uno come valuta di riserva internazionale. L’euro - l’unica moneta con un’economia di stazza analoga a quella statunitense - sconta ancora problemi di gioventù. Manca una vera unità fiscale tra i venti Paesi dell’Unione monetaria europea e, soprattutto, non c’è un vero mercato unico dei capitali. Insomma, non è ancora un’alternativa al dollaro.

La fiducia è, in fondo, l’unico bene rifugio che nessuna banca centrale può stampare. E se viene meno - non con una rottura clamorosa, ma con mille piccoli colpi quotidiani - non c’è accordo sui dazi o retorica protezionista che tenga. Nemmeno il possibile dialogo in corso tra Stati Uniti, Unione Europea e Svizzera - che potrebbe disinnescare alcune tensioni commerciali attraverso intese bilaterali - può compensare un indebolimento della credibilità monetaria americana. Il prossimo 9 luglio, infatti, scadranno i 90 giorni di sospensione delle tariffe doganali erga omnes, annunciati nel, ormai famoso, «Liberation Day». È molto probabile che si giunga a un accordo che ridimensionerà di molto le pretese statunitensi, ma non si tornerà di certo a una situazione di commercio libero da ostacoli da una parte all’altra dell’Atlantico.

C’è poi un punto più profondo, che riguarda la tenuta dell’architettura istituzionale occidentale. Se il principio dell’indipendenza delle banche centrali cade a Washington, dove è nato e si è consolidato, chi può impedirne la progressiva erosione anche altrove? L’Europa, già alle prese con tensioni politiche e spinte populiste, potrebbe trovarsi a difendere il principio con meno forza e con più contraddizioni. I mercati, per ora, galleggiano su un misto di abitudine e negazione. Ma una crisi di fiducia – quella vera, quella che non si annuncia ma si manifesta nei flussi di capitale – non avvisa. Si presenta e basta. E allora, probabilmente, sarà tardi per distinguerla da una sceneggiata trumpiana.