L'opinone

La misura del mito

Neutralità e prudenza non bastano più e la Svizzera deve reinventare la propria finanza in un mondo dominato da colossi statali
Giancarlo Bertoli
13.11.2025 06:00

Per decenni, la cultura bancaria svizzera ha rappresentato un modello di solidità, discrezione e misura. Essa è stata la traduzione economica di un’intera identità nazionale: la neutralità come virtù, la precisione come etica, la riservatezza come forma di rispetto. La banca svizzera, più che un’impresa, era una funzione morale. Custodiva valori e ricchezze, ma soprattutto custodiva la fiducia. Oggi quel modello appartiene più alla memoria che al presente. La trasformazione dei mercati, la globalizzazione dei capitali, la competizione fra Stati e l’intervento delle banche centrali hanno modificato radicalmente le condizioni in cui la reputazione poteva vivere di luce propria. Il mito della banca svizzera – discreta, impeccabile, autosufficiente – è stato lentamente eroso dal mutamento strutturale del mondo. Le grandi crisi del XXI secolo hanno spostato il baricentro della finanza mondiale verso sistemi in cui la sovranità statale – e non la prudenza privata – è divenuta il vero garante della stabilità. Cina, Stati Uniti e Giappone dominano la scena con istituzioni bancarie di dimensione colossale, sostenute da apparati pubblici che fungono da assicurazione ultima contro ogni rischio sistemico. In questo contesto, la Svizzera appare come un’isola di disciplina circondata da oceani di potenza. La sua indipendenza, che un tempo era un vantaggio competitivo, oggi si traduce in vulnerabilità. La crisi di Credit Suisse e l’assorbimento in UBS hanno segnato un punto di non ritorno. Non si è trattato solo di un salvataggio tecnico, ma del riconoscimento implicito che la piazza finanziaria elvetica non è più autosufficiente. UBS rappresenta oggi, paradossalmente, l’ultima incarnazione del mito nella sua immaginazione nazionale. È la banca che porta nel nome la tradizione svizzera, ma nella sostanza agisce come un gruppo globale. La recente intransigenza del Governo nel richiedere a UBS nuove e ingenti riserve di capitale, con percentuali di copertura sino al 100% sulle filiali estere, rappresenta un segnale emblematico. Una misura concepita per rafforzare la stabilità, ma che finisce per mortificare le esigenze di crescita e di espansione di un istituto globale. In un contesto competitivo dominato da colossi statali americani e cinesi – sostenuti da apparati pubblici che agiscono come garanti di ultima istanza – tale rigidità rischia di trasformare la virtù della prudenza in un vincolo di sopravvivenza. La Svizzera, nel tentativo di difendere la propria ortodossia regolatoria, sembra così frenare proprio quella banca che oggi costituisce la sua ultima importante presenza finanziaria nel mondo.

La gestione del caso Credit Suisse ha messo in luce gravi carenze istituzionali. La Finma, in quanto autorità di vigilanza, non ha esercitato con la necessaria tempestività e autorevolezza il proprio ruolo di garante della stabilità del sistema. Allo stesso modo, la Banca nazionale svizzera ha mostrato un atteggiamento di eccessiva prudenza, evitando di agire quale lender of last resort. L’esecutivo ha infine imposto, in modo burocratico, una transazione di natura amministrativa e contabile, giustificata in extremis con un’ordinanza d’emergenza volta a legittimare ciò che, in sostanza, è stata un’operazione commerciale. In questo do ut des poco ortodosso, UBS ha accettato un ruolo che le è stato presentato come inevitabile, ma oggi si trova a dover subire il contrappeso di quel compromesso: l’imposizione di un incremento delle proprie riserve. Resta aperta una questione fondamentale: se del caso, a chi spetterà la responsabilità di rimborsare azionisti e creditori? Riconoscere tale limite non significa rinnegare una storia, ma accettare la fine di un paradigma nazionale. Il mito della banca svizzera non è crollato per corruzione o superficialità, ma perché il mondo ha cambiato scala. Il capitale è divenuto geopolitico, la fiducia è misurata in potenza, non in riservatezza e la stabilità è garantita da banche centrali che agiscono come istituti operativi degli Stati. Nel nuovo ordine finanziario, la neutralità svizzera non basta più a garantire protezione.

La vera eredità della cultura bancaria svizzera sta nel sapere fin dove la virtù può spingersi prima di diventare rigidità e dove la prudenza deve lasciare spazio alla realtà. Solo accettando la fine del mito è lecito analizzare il nuovo possibile equilibrio: non più la banca del mondo, ma la scuola della sobrietà; non più il tempio della discrezione, ma il laboratorio della nuove sfide tecnologiche.