Finanza

Per le società il futuro è sempre più «privato»

Da due decenni cresce il numero di aziende che decidono di non quotarsi in Borsa e affidarsi ai fondi di «private equity» per finanziarsi - Il settore vale oltre 17 mila miliardi di dollari - Restano tuttavia le criticità legate alle valutazioni aziendali e alla trasparenza
I mercati privati in Europa stanno diventando molto interessanti. © CdT/Gabriele Putzu
Dimitri Loringett
15.11.2025 06:00

Ogni impresa nasce come privata. Anche la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che però s’inventò, nel lontano 1602, l’idea di raccogliere capitali da centinaia di investitori attraverso titoli azionari negoziabili, allo scopo di finanziare il suo rischioso commercio d’oltremare. Nacquero così i mercati «pubblici», le Borse valori insomma.

Il metodo della quotazione borsistica è stato quello dominante per la creazione e la crescita di aziende di tutto il mondo nei secoli successivi e soprattutto nel Novecento, raggiungendo l’apice durante il boom delle dot-com intorno al 2000. Da allora, molto è cambiato e i mercati privati hanno vissuto una crescita esponenziale, complice anche il regime dei bassi tassi d’interesse che ha agevolato il finanziamento tramite debito. Il fatto di essere «privati» consente inoltre alle aziende di evitare questioni come la governance, la divulgazione regolamentaria e le pressioni dei mercati. Addirittura, molte aziende tendono a rimanere private molto più a lungo, o anche a tempo indeterminato e persino tornare alla proprietà privata. E così, nell’ultimo quarto di secolo i mercati privati hanno progressivamente smesso di essere una nicchia per pochi addetti ai lavori e sono diventati oggi un pilastro della finanza globale: con oltre 17 mila miliardi di dollari di attivi in gestione, il private equity (PE), il private debt e gli investimenti immobiliari rappresentano ormai una componente strutturale di sempre più strategie di gestione patrimoniale.

Tuttavia, il boom dei mercati privati si confronta con alcune criticità «tipiche» di questo segmento della finanza, come l’illiquidità dei fondi che investono in tali attività e le valutazioni societarie non sempre trasparenti o puntuali (si pensi al caso First Brands negli USA), a cui si aggiunge ora una regolamentazione crescente.

Al tema dei private markets era dedicato l’incontro annuale dello Swiss Finance Institute (SFI), tenutosi giovedì a Zurigo, con la consueta prospettiva sull’argomento portato sia dal mondo accademico, sia da quello dei cosiddetti practitioners (professionisti) – caratteristica, questa, propria dello SFI, che a vent’anni giusti dalla fondazione si definisce, nelle parole introduttive del presidente dell’Associazione svizzera dei banchieri Marcel Rohner, «una delle poche PPP (partenariato pubblico-privato, ndr) che funzioni davvero».

Nel suo successivo intervento, il professore di Finance e Private Equity alla Stockholm School of Economics, Per Strömberg, ha parlato del ruolo dei mercati privati, in particolare del private equity. Secondo le analisi presentate dall’accademico, le imprese acquisite da fondi di PE migliorano in media la produttività, i margini e la crescita, grazie a tre leve principali: governance engineering (consigli di amministrazione attivi e incentivi mirati), financial engineering (strutture di capitale ottimizzate e maggiore leva finanziaria) e operational engineering (supporto strategico e operativo). Storicamente, ha spiegato Strömberg, i fondi PE hanno reso circa il 2-3% in più rispetto agli indicatori di riferimento dei mercati pubblici (indici azionari), ma con forti cicli legati alle condizioni del credito. Ma non tutte le aziende sono «appetibili» per i fondi PE, ha sottolineato l’esperto, perché la finanza privata è più costosa. Gli investitori richiedono infatti un cosiddetto «premio di illiquidità» (i fondi PE, rispetto a quelli comuni negoziati in Borsa, tipicamente hanno dei limiti temporali per vendere le proprie quote acquistate) e le commissioni dei fondi sono elevate, generando un «sovrapprezzo» dell’8-10% rispetto al capitale pubblico. Di conseguenza, il PE è sostenibile solo dove il valore creato supera questi costi. Inoltre, la proprietà è temporanea: dopo alcuni anni, il vantaggio marginale dell’attivo controllo si riduce e si procede alla vendita.

La prospettiva practitioner è stata poi portata da Jan Philipp Schmitz di Ardian (uno dei maggiori fondi di PE con sede in Europa), che ha illustrato le attuali tendenze di questo mercato, iniziando dal «momentum» dell’Europa, dove sempre più investitori volgono lo sguardo, grazie per esempio ai maxi piani d’investimento in infrastrutture, soprattutto in Germania ma anche nel continente intero nell’ambito della transizione energetica.