L'analisi

Quando uno scarafaggio non viene mai da solo

Tra bancarotte miliardarie, collaterali opachi e reazioni nervose dei mercati, il caso First Brands riaccende i riflettori sui rischi sistemici del credito privato USA, evocando lo spettro di una nuova crisi finanziaria
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Dimitri Loringett
24.10.2025 22:00

«Probabilmente non dovrei dirlo, ma quando vedi uno scarafaggio, ce ne sono probabilmente altri. Dovremmo tutti stare in guardia». Lo ha detto la settimana scorsa il numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, agli analisti in occasione della pubblicazione di risultati del terzo trimestre della più grande banca al mondo. L’accenno alla «Cockroach Theory», molto popolare nel mondo della finanza, che indica come una cattiva notizia (per esempio riguardo a un’azienda) sia spesso il preludio di molte altre, era riferito al mercato allargato del credito commerciale privato (quello non bancario, per capirci) negli USA. Il settore è da settimane in tensione a seguito della bancarotta di Tricolor (uno dei più importanti rivenditori di auto usate nel Paese) e di First Brands (colosso dei pezzi di ricambio per autoveicoli), con quest’ultimo in particolare che si stima avesse accumulato debiti per oltre 10 miliardi di dollari (ma alcune stime parlano addirittura fino a 50 miliardi) a fronte di attivi – sempre stimati – tra uno e 10 miliardi. Cifre importanti, ma bruscolini se rapportate a un mercato che vale ben oltre i mille miliardi di dollari.

Eppure, al primo accenno di contagio nel settore delle banche regionali – come la Zions Bancorporation nello Utah e la Western Alliance nell’Arizona – le Borse USA hanno subito reagito: nella sola giornata di giovedì 15 ottobre l’indice dei titoli bancari regionali KBW Regional Banking Index è crollato di oltre il 6%. E la situazione non ha risparmiato nemmeno i listini settoriali europei, con l’indice di riferimento Euro Stoxx Banks che nello stesso giorno ha ceduto circa il 3%, mentre il titolo UBS ha ceduto quasi il 4%. UBS che è coinvolta nella vicenda di First Brands, attraverso la sua controllata O’Connor (fondo hedge da 11 miliardi di dollari attivo nel private credit e nelle commodities, che presto passerà in mano a Cantor Fitzgerald) che ha investito circa il 30% di uno dei suoi fondi in attività legate alla società andata in bancarotta, tra finanziamenti diretti e crediti su fatture, per un’esposizione complessiva di oltre 500 milioni di dollari.

Un nuovo caso Silicon Valley Bank?

Le turbolenze hanno riacceso l’attenzione degli investitori sui rischi legati al credito privato e alla qualità degli attivi e, nel caso di First Brands, ai presunti finanziamenti opachi fuori bilancio. Nella fattispecie, il problema risiederebbe (anche) nella doppia, finanche multipla, assegnazione del medesimo collaterale a più creditori, una pratica che solleva interrogativi sulla trasparenza e i controlli nel credito privato. E così nei media finanziari sono subito riemersi i paragoni con la vicenda del crollo, nei primi mesi del 2023, della Silicon Valley Bank (e di altre banche regionali) che, come noto, ha preceduto, sebbene con altre cause, quello di Credit Suisse. Ma nelle ore e giorni successivi da più parti esperti e anche dirigenti si sono affrettati a diffondere «rassicurazioni» sul fatto che l’episodio non avesse nulla a che fare con i crolli bancari del 2023 che, va detto, erano dovuti a questioni di liquidità. Stando per esempio ai vertici di Zions Bancorporation, l’impatto finanziario diretto del crack di First Brands e di Tricolor sarebbe tutto sommato contenuto: si parla di una perdita potenziale da 60 milioni di dollari legata a un prestito commerciale garantito da collaterale presumibilmente fraudolento, per un’esposizione pari a circa lo 0,1% del proprio portafoglio prestiti. E anche in caso di perdita totale l’effetto sull’utile del 2025 sarebbe limitato al 5%. Altri istituti, come Western Alliance, hanno dichiarato di attendersi il rimborso integrale grazie alla solidità del collaterale in loro possesso. Anche la stessa JPMorgan ha gettato acqua sul fuoco: pur ammettendo di aver commesso errori, come il «write-off» (svalutazione) da 170 milioni di dollari legato a Tricolor, il numero uno Dimon ha sottolineato che la banca sta riesaminando a fondo i propri processi di controllo.

Insomma, alla luce di queste considerazioni il crollo dei titoli bancari, in particolare quelli regionali negli USA, appare legato più a fattori tecnici e psicologici che a un deterioramento strutturale. A corroborare la tesi vi sono i primi risultati trimestrali, positivi, pubblicati in questi giorni proprio da alcune banche regionali, nel contesto della stagione dei risultati trimestrali che per aziende e banche negli USA sono attesi in aumento o perlomeno stabili, scongiurando i timori di un meltdown paventati appena una settimana fa.

Segnali di inversione di rotta

Molto rumore per nulla? Non esattamente. Questa settimana i titoli bancari hanno sì recuperato terreno in Borsa e i principali listini USA viaggiano ancora sui livelli massimi dell’anno (grazie anche ai dati sull'inflazione sotto le attese, al 3% in settembre, che fanno aumentare le probabilità di un taglio dei tassi da parte della Federal Reserve), ma il crollo delle quotazioni dell’oro (da lunedì -6%, andando sotto quota 4.100 dollari l’oncia) e il rafforzamento del franco svizzero, che ha raggiunto per la seconda volta quest’anno il suo minimo storico attorno a quota 0,9206 contro euro, sono segnali di un cosiddetto «risk-off» (avversione al rischio) da parte degli operatori e investitori che, ritenendo che le condizioni economiche stiano peggiorando, tendono a ridurre i rischi e a riposizionarsi su valori più «sicuri», come le obbligazioni. Infatti, i rendimenti dei titoli di Stato USA a scadenza decennale (Treasury) sono scesi sotto il 4% (per l’effetto inverso rispetto al prezzo d’acquisto), mentre il rialzo del franco è in buona parte conseguenza della liquidazione di operazioni (anche speculative) di carry trade, su cui abbiamo riferito in precedenza.

In genere, le fasi di risk off non durano molto, ma i timori di ulteriori scossoni non mancano. «Ciò che mi preoccupa maggiormente, piuttosto, sono due cose: l’eccesso di investimenti in IA e la lunghezza fuori dall’ordinario dello shutdown per il quale non si vede ancora via d’uscita», osserva Mario Cribari, partner e responsabile della strategia di investimento di BlueStar Investment Managers a Lugano. «Agli shutdown americani siamo tristemente abituati – prosegue – ma quando sono così lunghi diventano preoccupanti. Se non altro perché a causa di questo ci troviamo in una fase di completo buio su una serie di statistiche economiche importanti (tra cui mercato del lavoro, vendite al dettaglio e dati di inflazione) che in questo stadio sono molto più importanti dei prestiti subprime sulle auto (di cui si occupava Tricolor, ndr), per altro conditi da un probabile falso in bilancio». Riguardo all’IA, invece, l’analista luganese è curioso di vedere i risultati trimestrali delle grandi società tecnologiche: «Oltre a fornire un’indicazione sull’ammontare degli investimenti in IA previsti per il 2026, queste società dovranno confermare che continuano a fare utili (magari anche grazie agli ingenti investimenti già fatti in IA) anziché “bruciare” liquidità con gli investimenti in conto capitale. Sono molto curioso – e preoccupato – in particolare dagli annunci di Meta, una degli hyperscaler che hanno investito di più negli ultimi due anni».