L'intervista

Thomas Jordan: «Non sono un sostenitore della separazione bancaria»

Con il numero uno della Banca nazionale svizzera (BNS) e il direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali (BIS) Agustín Carstens (alla sua prima visita in Ticino) abbiamo parlato, in esclusiva per il CdT, di politica monetaria, stabilità finanziaria, guerra in Ucraina e di valute digitali
Thomas Jordan (a sinistra) e Agustín Carstens durante l’incontro a Lugano con il CdT. © CdT/Gabriele Putzu
Dimitri Loringett
10.06.2023 06:00

In occasione dell'incontro pubblico «Central Banking Dialogue», tenutosi a Lugano lo scorso 31 maggio all'USI e organizzato dalla Banca nazionale svizzera (BNS), abbiamo conversato con i due relatori ospiti, Thomas Jordan e Agustín Carstens, rispettivamente presidente della direzione generale della BNS e direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali (per la prima volta in Ticino), su temi d'attualità ma anche di politica monetaria e di valute digitali.

Una domanda d’attualità: i beni della banca centrale russa in Svizzera sono stati congelati. Questo crea un problema per la stabilità delle banche centrali, o del sistema finanziario?
Agustín Carstens: «Credo che il vero problema sia l’aggressione russa all’Ucraina. In fin dei conti, la BIS è un’istituzione che ha lo scopo di favorire la cooperazione e la collaborazione internazionali e promuovere la stabilità monetaria e finanziaria. Naturalmente le autorità politiche e finanziarie e le banche centrali possono prendere provvedimenti specifici. Questa guerra è stata tremendamente destabilizzante. Pertanto, è molto difficile immaginare che in un’istituzione che ha come obiettivo la cooperazione e la collaborazione ci si possa sedere nella stessa stanza e parlare con la stessa libertà. Ci sono alcuni principi fondamentali che non si possono ignorare. Purtroppo, la Russia ha deciso di intraprendere certe azioni, rendendo molto difficile la partecipazione a questi incontri. Per questo abbiamo deciso di sospendere tutte le nostre attività con la Russia, che non partecipa più ai nostri incontri, non beneficia delle nostre ricerche e non ha accesso ai nostri servizi bancari».

Restando sull’attualità, il CEO di UBS Sergio Ermotti è fiducioso che i contribuenti svizzeri non dovranno sostenere alcun costo per l’acquisizione di Credit Suisse. Lei è ugualmente fiducioso?
Thomas Jordan: «Sarebbe ideale se UBS potesse gestire l’intera integrazione di Credit Suisse senza ricorrere alla garanzia della Confederazione. Penso che sia un’ottima ambizione quella di UBS di non utilizzarla».

Dopo i fallimenti bancari negli USA e la débâcle di Credit Suisse in Svizzera, viene da chiedersi se rivedremo una situazione simile a quella del 2008. È così?
Agustín Carstens: « Col senno di poi, all’epoca della grande crisi finanziaria del 2008 alcuni aspetti del sistema bancario non erano sufficientemente regolamentati, ma molti dei problemi di allora non sono più presenti oggi. Ciò che è importante sottolineare in questa fase è che la totalità delle regole di Basilea 3 deve essere adottata e rispettata il più rapidamente possibile. C’è ancora tempo fino al 2027, ma credo sia importante accelerare il processo per salvaguardare la salute del sistema finanziario. In ogni caso, è importante capire che la regolamentazione e la vigilanza, da sole, non possono garantire l’assenza di problemi. Il contesto e le condizioni cambiano continuamente. La prima linea di difesa nella gestione prudenziale di una banca è il lavoro che il consiglio di amministrazione deve esercitare nella supervisione dell’istituto, sapendo quali rischi vengono assunti, quali sono le vulnerabilità e quali sono le azioni intraprese per rimediare a tali vulnerabilità. Dopodiché, è la direzione che deve attuare le misure correttamente. Credo che il caso del Credit Suisse rientri in questa categoria: il Cda non ha intrapreso le azioni opportune. In un certo senso, da osservatore esterno, posso dire che il modello di business era anche poco chiaro. Anche il contesto ha influenzato la percezione degli investitori e quindi le cose sono andate come sono andate».

La separazione fra attività commerciali e finanziarie nelle banche potrebbe contribuire a evitare crisi future?
Thomas Jordan: «Non credo che il “Trennbankensystem” possa davvero portare a una situazione in cui non ci siano più crisi bancarie e non sono un sostenitore del concetto di separazione bancaria. Abbiamo visto infatti che si possono verificare corse agli sportelli anche nelle banche regionali, negli Stati Uniti. Nel caso Credit Suisse, abbiamo visto che i problemi principali non provenivano dall’Investment Banking, ma piuttosto dalla mancanza di fiducia nel modello di business della banca in generale».

Parliamo ora di politica monetaria: è ancora ragionevole perseguire un obiettivo di inflazione del 2%? Qual è il punto di «equilibrio» tra l’obiettivo di inflazione e il tasso d’interesse base?
Thomas Jordan: «Le domande sono sostanzialmente due: una riguarda l’obiettivo di inflazione. La maggior parte delle banche centrali ha un obiettivo di inflazione di circa il 2%, la BNS ha un obiettivo leggermente più conservativo. Noi definiamo la stabilità dei prezzi come un’inflazione inferiore al 2%, ma in territorio positivo, cioè tra lo zero e il due percento. L’obiettivo del 2% non è un dogma, né di una volontà di un determinato gruppo di interesse. Dato che il mandato è mantenere e raggiungere la stabilità dei prezzi, la domanda da porsi è perché sia così importante mantenerla. Innanzitutto, la stabilità dei prezzi è l’ambiente migliore affinché l’economia possa realizzare il suo potenziale di crescita. Quando l’inflazione è troppo alta oppure, al contrario, negativa (deflazione), in genere un’economia non può raggiungere il suo potenziale. Inoltre, la stabilità dei prezzi è molto importante per la stabilità e l’equità sociale. Quando l’inflazione è superiore al 2%, per esempio al 5%, ne soffrono soprattutto le persone con reddito più basso. Si tratta quindi di una questione di giustizia sociale ed è anche per questo che molte banche centrali hanno un mandato conferito dallo Stato per mantenere la stabilità dei prezzi.

L’altra domanda riguarda il tasso di interesse di base. Naturalmente, se l’inflazione è superiore all’obiettivo, la politica monetaria deve essere restrittiva. Una volta che l’inflazione rientra nell’area della stabilità dei prezzi, ovvero sotto al 2%, la questione è dove si collochi il tasso neutro che non stimoli né rallenti la crescita. Nella maggior parte delle economie avanzate il tasso neutro reale viene stimato tra zero e un punto percentuale. Quindi, se ci si aggiunge l’obbiettivo d’inflazione, si ottiene il cosiddetto tasso neutro nominale, che in molti Paesi sviluppati si colloca nella fascia tra il 2% e il 3%, mentre in Svizzera potrebbe essere leggermente inferiore».

Un’osservazione ricorrente è che i governi abbiano «delegato» troppo alle banche centrali in materia di politica economica. Condivide?
Thomas Jordan: «Credo che questa osservazione sia frutto di un’analisi solo parziale della realtà. La politica monetaria condotta dalle banche centrali può anche influire sull’economia reale nel breve termine, contribuendo a riportare la crescita al suo potenziale, soprattutto quando si verifica una recessione molto profonda come quella che abbiamo avuto durante la crisi finanziaria globale del 2008, o anche durante la pandemia. Ma la politica monetaria non ha alcun impatto sul potenziale di crescita. Questa è data fondamentalmente da fattori come la demografia o la politica strutturale: quando ci si trova in un contesto economico più competitivo, con buone infrastrutture e, in generale, in un Paese affidabile e stabile, il potenziale di crescita è infatti maggiore; quindi, la politica fiscale o strutturale di un Paese può avere un grande impatto. Pensiamo per esempio agli stabilizzatori automatici, come l’assicurazione contro la disoccupazione che durante la pandemia ha indennizzato le imprese e i lavoratori».

Per quale motivo molte banche centrali, tra cui la BNS, vogliono introdurre le valute digitali (CBDC)?
Agustín Carstens: «Nelle economie moderne il sistema bancario funziona fondamentalmente con due tipi di denaro: quello delle banche centrali e quello delle banche commerciali. La moneta delle banche centrali è costituita da banconote e monete, mentre le riserve, quindi la moneta “all’ingrosso”, è di fatto già elettronica. Le banche commerciali, invece, fanno circolare il denaro che hanno in deposito e, a fine giornata, girano i saldi in eccesso alla propria banca centrale. Credo che un modo di concepire il modo in cui le banche centrali pensano alle CBDC sia come tradurre in futuro questo modello che ha funzionato molto bene finora».

Thomas Jordan: «Riguardo la Svizzera, stiamo facendo alcuni esperimenti con i CBDC all’ingrosso. La tecnologia di registro distribuito (“distributed ledger technology”, DLT) potrebbe aumentare l’efficienza dell’infrastruttura dei mercati finanziari e si pone la questione su come la moneta digitale di banca centrale potrebbe essere messa a disposizione. Sono invece più scettico, in questo momento, per quanto riguarda i CBDC per il pubblico. Per la situazione svizzera non vediamo ancora un caso per il loro utilizzo concreto. Vediamo anche alcuni rischi che possono avere un impatto relativamente grande sul sistema finanziario e questo è molto più difficile da controllare. Ma rimaniamo aperti a riconsiderare questa nostra posizione in futuro, motivo per cui stiamo conducendo o partecipando a questi diversi esperimenti e prendiamo parte al dialogo internazionale».

Come vedete il ruolo dominante del dollaro americano in futuro?
Agustín Carstens: «Vedo molto remota la possibilità che il dollaro perda il suo status di valuta di riferimento globale. Circa il 60% delle riserve finanziarie internazionali è detenuto in dollari, un po’ meno che in passato, ma le transazioni in valuta estera sono effettuate per il 90% contro il dollaro».

Thomas Jordan: «Concordo pienamente. Per utilizzare una moneta come valuta di riserva è necessaria un’infrastruttura del mercato finanziario, ma anche un sistema politico, la fiducia nel Paese e l’accessibilità da ogni parte del mondo. Queste cose rendono il dollaro molto lontano dall’idea che qualche altra valuta di un altro Paese possa fornire esattamente ciò che gli Stati Uniti fanno in questo momento».

Ai vertici un professore e un ex politico

Dall’accademia alla BNS

Thomas J. Jordan (Bienne, 1963) ha conseguito all’Università di Berna la licenza in economia politica e aziendale nel 1989 e il dottorato nel 1993. In seguito ha seguito una formazione post-doc a Harvard negli USA. Intrapresa nel 1997 la sua carriera presso la Banca nazionale svizzera a Zurigo, nel 2002 è stato nominato vicedirettore e promosso a direttore due anni più tardi. Nel 2007 il Consiglio federale lo ha nominato membro della Direzione generale e, il 18 aprile 2012, presidente. È professore ordinario all’Università di Berna dal 2003.

Un messicano a Basilea

Agustín Carstens è Direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali (con sede a Basilea) dal 2017. È stato governatore della Banca del Messico dal 2010 al 2017, dove iniziò la sua carriera nel 1980. Dal 1999 al 2000 è stato direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale (FMI). In seguito, è stato viceministro delle Finanze messicano (2000-2003) e vicedirettore generale del FMI (2003-06). È stato ministro delle Finanze del Messico dal 2006 al 2009. Carstens è membro del Financial Stability Board dal 2010 ed è membro del Gruppo dei Trenta. Carstens possiede i titoli di master e di dottorato in Economia, entrambi conseguiti all'Università di Chicago.