Ghiacciaio del Teodulo, la natura sfruttata in nome dello show

Chi abita sotto quelle montagne lo dice da tempo. «Il ghiacciaio del Teodulo si scioglie a vista d’occhio, anno dopo anno». Un processo ormai conosciuto, irreversibile, che tocca – per limitarci al nostro ambiente – qualsiasi ghiacciaio della cresta alpina. È il clima che cambia, che trasforma le nostre cime e il nostro territorio, inesorabilmente. In un meccanismo accelerato fatto di una lunga serie di estati troppo torride e inverni troppo miti. Eventi estremi uno in fila all’altro che conducono proprio là, dove si compirà il destino dei nostri giganti di ghiaccio. Sappiamo che non rimane molto tempo: qualche decennio, forse mezzo secolo o giù di lì per i ghiacciai più grandi e in altitudine. Ma diciamo, semplificando, che entro il 2100 quasi ovunque rimarranno solo pietre e terra nuda.
Eppure c’è anche chi non vuole arrendersi all’evidenza e pretende ancora di sfruttare fino all’ultimo ogni risorsa naturale. Nel caso specifico, il ghiacciaio del Teodulo, sofferente da anni, vale ancora qualcosa. Vale soldi, business, spettacolo, divertimento, competizione. Tutte cose buone e giuste, eh certo. E poi ci dicono che quella pista, «la Gran Becca» – che altro non è che il nome con cui gli abitanti della Valtournenche, una laterale della Valle d’Aosta, chiamano il Cervino – è «sostenibile». Sì, è vero: sopra la casetta della partenza, da dove gli sciatori si lanceranno per affrontare questo fine settimana il «Matterhorn Cervino Speed Opening», ci hanno piazzato dei pannelli solari. E l’impianto di innevamento artificiale utilizza anche fonti rinnovabili.
Il problema, però, è l’uso che si fa di un bene pubblico come una montagna, in questo caso di un ghiacciaio. Di chi è quel piccolo pezzo di mondo che sta scomparendo nelle Alpi a cavallo fra Svizzera e Italia? È di tutti. È della collettività. Ciascuno di noi ha il diritto di vederlo, di ammirarlo finché c’è, di riflettere sulle sensazioni che ci trasmette un simile monumento, uno scrigno che custodisce la memoria di tutte le epoche passate.
Gli organizzatori della corsa, però, non lo hanno trattato come tale. Ne hanno fatto un bene privato, sbancando con le ruspe parti del ghiacciaio al di fuori dell’area autorizzata per le gare di sci. Immagini che hanno fatto il giro del mondo e che hanno provocato un danno a tutto l’universo dello sci di alto livello. Uno sport magnifico, vissuto con una passione fuori dal comune in tutto l’arco alpino. E che da anni cerca giustamente di reinventarsi, di trovare nuove formule per mantenersi attrattivo.
Ma qui si è andati decisamente oltre la ragione e il lecito, tant’è che – al netto del danno di immagine – è stato aperto un procedimento penale. Sullo sfondo c’è l’egoismo di chi ha voluto organizzare a tutti i costi una gara, l’unica «transfrontaliera» di tutto il circuito, sopra un ghiacciaio, andando contro i suggerimenti della Federazione internazionale di sci che chiedeva di metterla in programma più in là, in marzo, quando la neve c’è (o dovrebbe esserci). Niente da fare: l’evento lancia la stagione invernale per tutto il comprensorio di Zermatt, dunque bisogna proporla già a novembre, permettendo agli alberghi di riempirsi e ai negozi di vendere.
Lo sci è lo sport che più di tutti avverte il cambiamento climatico. L’apertura di stagione a Sölden a fine ottobre è in dubbio quasi sempre, mentre l’anno scorso proprio la gara di Zermatt non ha potuto svolgersi per mancanza totale di neve. È un fatto da accettare, con cui convivere sempre più spesso. Si scierà finché si potrà farlo. Ma forzare la mano andando con le ruspe sopra un ghiacciaio, a quasi 4.000 metri di quota, dimostra solo una logica che è pura avidità commerciale e ambientale.