Giona A. Nazzaro: «Alla base delle mie scelte c’è sempre la qualità»

È al suo terzo anno da Direttore artistico e pare aver ormai assimilato nel proprio DNA lo spirito del Pardo: curioso e sempre alla ricerca di nuovi territori di caccia. Dopo il COVID (2021) e il boom delle piattaforme (2022), quest’anno Giona A. Nazzaro è alle prese con un altro «caso»: lo sciopero di Hollywood. È da lì che è partita la nostra conversazione.
La
notizia dello sciopero in corso degli attori e degli sceneggiatori aderenti ai
sindacati statunitensi SAG-AFTRA continua a far parlare di sé. Quali sono
secondo lei le dinamiche più importanti alla base di questa azione?
«I
punti fondamentali sono sempre gli stessi e si possono riassumere in due
parole: sostituzione e supporto. La sostituzione è il vero problema, quello del
cambiamento di supporto è invece un passaggio inevitabile. Oggi però il nodo
importante non riguarda la presenza delle piattaforme, ma la ripartizione degli
utili delle opere audiovisive che vengono diffuse in maniera alternativa
rispetto alla sala cinematografica. Una volta, parlo degli anni ’70, in
televisione avevamo un episodio di Kojak o di Le strade di San
Francisco a settimana, il che significava che ogni volta si verificavano
gli ascolti, si facevano i conti e gli utili venivano ripartiti secondo gli
accordi presi in precedenza. Oggi invece una piattaforma lancia tutta insieme
una serie televisiva, annuncia un successo clamoroso, ma nessuno sa chi l’ha
vista, come è stata vista, quanto è stata vista e se il mio curiosare solo per
i primi 10 minuti o per i titoli di testa vale come una visualizzazione oppure
no. Chi oggi lavora in questo contesto spesso è legato anche da un contratto di
esclusività, per cui non sa se questa serie tv continuerà o meno, però nel
frattempo non può fare altro, perché se si rivela un grande successo, secondo
parametri che nessuno ha modo di verificare, dovrà scriverne subito un’altra
stagione. Prima che venga presa una simile decisione, però, non potrà lavorare
per altri e quindi questo crea da un lato una precarizzazione della forza
lavoro esistente e dall’altro una concentrazione dei profitti. La situazione
eccede quindi l’entrata in scena dell’intelligenza artificiale - che per me è
una contraddizione nei termini poiché o è intelligenza o è artificiale - e
tocca invece soprattutto la ridiscussione delle regole d’ingaggio di chi lavora
nel mondo degli audiovisivi negli USA. Pensiamo alle comparse, che guadagnano
70 dollari per un giorno di lavoro su un set. Ora, io con un programma che
riproduce tutti gli sfondi che già esistono, inserisco quel che voglio nelle
immagini e le comparse hanno finito per sempre di lavorare. Si tratta quindi di
equilibrare l’avanzata inevitabile della tecnologia a supporto della produzione
audiovisiva e il ripensamento delle regole sindacali».
Ma
non è la rivolta dei bambini viziati?
«No, queste cose ci prendono di sorpresa perché in fondo siamo sempre un po’
antiamericani, ma per un Brad Pitt ci sono molte altre persone di talento che
rischiano grosso. E allora, o rispettiamo l’industria dello spettacolo che ci
permette di vedere film oppure no. Non ci si può lamentare che il cinema va
male e poi lamentarsi ancora se a portare la gente al cinema sono film come Barbie
o come quelli interpretati da Tom Cruise. Anche perché, con tutto il rispetto
per il cinema d’autore che tutti abbiamo amato e che continuiamo ad amare, quel
cinema continuerà ad esistere solo con alle spalle un’industria forte che lo
può sostenere. Se domani si deve tagliare qualcosa, si comincerà da quello che
porta meno e allora sarà inutile stracciarsi le vesti».
Questo
sciopero ha comunque delle conseguenze anche sulla partecipazione di alcune
personalità invitate a Locarno 76…
«È
vero, nessuno di loro però sarebbe venuto a Locarno a promuovere film degli
Studios ma a ritirare premi onorari. Non è stato quindi impedito loro di venire
ma si tratta di valutazioni personali prese in accordo con manager, consulenti
d’immagine per capire cosa comporterebbe il fatto di essere qui a venir
celebrati, intervistati e premiati mentre altre persone stanno in sciopero. Da
sempre a Locarno i nomi che invitiamo sono legati all’affetto che portiamo loro
e al valore che essi rappresentano, non ad altro».


Parliamo
allora di quel che si vedrà in Piazza Grande: due film importanti visti a
Cannes in prima fila con il nuovo Ken Loach e la Palma d’oro firmata da Justine
Triet. Una bella coppia…
«Alla
base di queste scelte c’è sempre la qualità delle opere. C’è un nuovo film di
Ken Loach, che è un grande amico di Locarno? Lo prendiamo! C’è la Palma d’oro
di Cannes che è un film molto buono di una cineasta che abbiamo seguito
fin dal primo film? Lo prendiamo! Tutto qui».
Sempre
parlando della Piazza, si può dire che ci sia una prevalenza di protagoniste
femminili nei film in programma?
«È
una lettura interessante del programma, ma si tratta di un caso. Anch’io,
guardando in campo lungo il cartellone della Piazza mi sono reso conto di
una serie di aspetti che non avevamo notato mentre mettevamo insieme i vari
film. Per ciò che riguarda la questione femminile, da un lato è un problema
reale avere un bilanciamento di questa offerta, d’altro lato non penserei mai
di fare questo tipo di considerazione a danno di quella che, in piena
coscienza, definirei la mia idea di qualità».
Veniamo
ai film del concorso internazionale, ci si trova davanti a una grande varietà
di generi e di temi che non può che far piacere…
«È esattamente questo il senso dell’operazione. Noi
ci troviamo tra Cannes e Venezia ed è molto difficile affermarsi con una
propria identità, senza finire nell’illeggibilità della proposta. Quello di mio
che ho messo in questa selezione è l’ambizione che ogni film possa essere
diverso da tutti gli altri senza rischiare la banalità dell’eclettismo. A me
interessa che ogni film abbia una sua identità forte. Che poi questa vada a
confliggere creativamente con quella del film successivo non può che rendermi felice.
Ciò che mi succede spesso ai festival è che dopo un po’ tutti i film mi
sembrano uguali, nel senso che hanno tutti lo stesso passo, tutti la loro
suddivisione in tre atti ben scandita. E per me tutto questo è poco
interessante. Io voglio che il pubblico venga a Locarno e magari si arrabbi
anche, ma l’arrabbiatura, lo scontro è fruttuoso se si fa su titoli che sono
interessanti».

«Il Fuori concorso? Uno spazio di libertà»
Giona A. Nazzaro, la sezione Fuori concorso, che di solito passa un po’
inosservata, forse si meriterebbe una denominazione più attrattiva, soprattutto
quest’anno che comprende molti nomi interessanti. Come nascono queste scelte?
«Mi
fa piacere se questa sezione viene notata, perché è uno spazio dove si trovano,
tra gli altri, film di Denis Côté, Franco Maresco, Barbet Schroeder, un film
postumo di Paul Vecchiali, ma anche opere totalmente fuori scala come un action
movie filippino o un film di vampiri ambientato a Napoli. Mi diverto a fare
il programma di questa sezione poiché, facendo il programmatore da più di 20
anni, ho iniziato mettendo insieme cose diverse e mi sono sempre regolato
così. Mi dispiace molto non poter ospitare Denis Côté per il suo ultimo film
Mademoiselle Kenopsia che ci mostra la sua estrema libertà, anche se l’ha
girato in un momento di grande fragilità fisica. Però, in queste circostanze
gli artisti veramente creativi inventano nuove modalità di pensare il
proprio lavoro. Non avendo l’energia per scrivere una sceneggiatura, ha
improvvisato il film con le attrici dando loro tracce di dialogo
molto astratte. Quanto alla denominazione della sezione, ci avevo anche pensato
di cambiarla, però Fuori concorso, nella sua indecifrabilità, mi lascia grande
libertà».
Parliamo
di cinema svizzero: com’è il suo stato di salute?
«Molto interessante, perché c’è una banda di gente -
e dico banda volutamente, perché il termine generazione sembrerebbe
immediatamente segnalare un intento comune - che fa cose assolutamente
singolari e ho l’impressione che per la prima volta questi cineasti
svizzeri non siano preoccupati dalla loro identità nazionale. Persino Daniel
Schmid, di cui vedremo in Piazza Grande la bellissima copia restaurata di La
paloma, parlava sempre della Svizzera e ci ragionava sopra. Invece, quelli
di oggi sono svizzeri di fatto che pensano in maniera ampia, senza limitazioni
identitarie. Per cui creano opere straordinariamente libere, aperte. E penso ai
fratelli Zürcher, ad Andreas Fontana, Cyril Schäublin, Carmen Jaquier,
Katharina Wyss e tanti altri. E anche allo stesso Basil Da Cunha di cui vedremo
in concorso Manga D’Terra, un film che somiglia a una jam session.
O anche La voie Royale di Frédéric Mermoud che vedremo in Piazza:
un’opera molto solida, con una grande padronanza della messa in scena e del
racconto. Tutto ciò ci fa immaginare il rinnovamento del cinema in Svizzera,
non soltanto attraverso la frattura costante e continua della forma ma anche
lavorando all’interno delle forme date, il che non è un limite ma un merito».