«I miei 54 giorni d'isolamento in Cina dentro un container»

Il 25 febbraio dopo un test si registra in Ticino il primo caso di COVID in Svizzera. Pochi giorni dopo a Losanna, e siamo al 5 marzo, avviene il primo decesso. Undici giorni dopo scattano in tutta la Confederazione le restrizioni. Due mesi prima dall’altra parte del mondo, a Wuhan, in Cina, Filippo Santelli - allora corrispondente da Pechino e oggi inviato del quotidiano italiano Repubblica - è davanti al mercato all’ingrosso: «Era tutto chiuso, deserto», racconta Santelli che ha passato 54 giorni in isolamento.
Poi cosa è accaduto?
«Mentre scrivevo il mio articolo, era il 22 gennaio 2020, vengo a sapere che le autorità di Wuhan stanno chiudendo le stazioni dei treni e gli aeroporti. Io parlo un po’ di mandarino ma non avevo assistente, così mi precipito di notte all’aeroporto e prendo uno degli ultimi aerei per Pechino».
Dove era già scattato l’allarme?
«No, tanto è vero che mi ero illuso d’aver lasciato alle mie spalle virus e contagi. A Pechino allora non c’erano casi ufficiali. E questo dimostra che la Cina ha mentito, ha mentito innanzitutto a se stessa. Forse perché avendo mille periferie le informazioni faticano a risalire sino a Pechino perché le autorità prima di far scattare l’allarme cercano di risolvere da sole la situazione. Come si dice in Cina: le montagne sono alte e l’imperatore è lontano».
Quindi sin dall’inizio della pandemia non ha funzionato la catena di comunicazione?
«Bisogna capire che l’autonomia delle province in Cina è molto elevata e articolata. Nelle città ci sono i sindaci e i segretari di partito, nelle province i presidenti e i segretari di partito. Ci sono due poteri paralleli, dove Stato e partito lavorano a livelli sovrapposti».
È quello che è accaduto con Wuhan?
«Sì, a Pechino non si percepiva il pericolo. Quando sono sceso dall’aereo il personale con le tute e gli scafandri non mi ha chiesto nulla, ci hanno lasciato andare. Eppure, quell’aereo poteva essere una bomba batteriologica».
Allora a Pechino non c’erano restrizioni?
«No. Eppure paradossalmente la Cina aveva un piano di prevenzione che aveva messo a punto dopo la Sars. Ma evidentemente i medici sono stati zittiti perché i politici da subito hanno voluto gestire l’informazione».


Sino a quel momento la situazione è filata liscia.
«Dopo due settimane di lavoro a Pechino, dove non c’era ancora il lockdown, sono rientrato in Italia. Quando sono atterrato a Fiumicino nessuno mi ha chiesto da dove arrivassi. Io, comunque, per prevenzione sono stato per due settimane in hotel per non rischiare. Nell’ottobre 2020 sono ripartito per Nanchino».
Dove c’erano già regole restrittive?
«Sì, c’era la quarantena obbligatoria in un hotel per chi arrivava dall’estero. Al Centro di controllo ho fatto il tampone. Avevo qualche dolore alla schiena e alle gambe, pensavo fosse la stanchezza del viaggio. E invece il tampone è risultato positivo. Di notte dall’albergo mi hanno portato in ambulanza in un ospedale temporaneo, costruito in fretta con i container fuori dalla città. Gli infermieri, era buio c’era solo una luce fioca, mi hanno portato in una stanzetta di tre metri per cinque: nella porta c’era già un cartello con il mio nome».
Hanno spiegato cosa stava accadendo?
«Ho chiesto quanto dovessi stare lì, l’infermiera mi ha spiegato che sarei rimasto sino a quando non ci fossero stati tre tamponi negativi per due giorni di fila. Sono passati 40 giorni, mi è andata bene, c’è gente che ha vissuto in un container per sei mesi».
Che vita è dentro un container?
«Ero solo, non potevo vedere nessuno, avere contatti con l’esterno. Ho avuto paura ma i dolori mi sono spariti rapidamente, non ho avuto febbre, e ho capito che ero asintomatico e che forse mi ero contagiato in Italia».
Una specie di cella, di carcere?
«Dovevo usare un Qr code per acquistare viveri, un altro per altri generi come la carta igienica. In quella stanza dove le ore non passavano mai non c’era luce naturale, solo un neon acceso e una finestrella sempre chiusa che dava su un corridoio. Vedevo un po’ di luce naturale quando venivano a fare le pulizie e mi avvicinavo alla porta d’ingresso. Fortunatamente avevo Internet. Ho potuto lavorare, parlare via Skype. L’infermiera mi ha detto che capiva il mio disagio psicologico, il fatto che la mia libertà era stata azzerata; ma ha aggiunto che quello era un sacrificio necessario per una causa più grande, per evitare di contagiare chi stava fuori. È un po’ la mentalità cinese».


Gli ultimi giorni come sono stati?
«Difficili, con notizie altalenanti, non vedevo la fine. Ho fatto un test negativo, poi il successivo era positivo. Una mazzata. Quando alla fine sono finalmente uscito ho visto i container e mi sono resoconto dove fossi. Accanto stavano costruendo un nuovo centro. Da lì sono finito in hotel perché dovevo stare altre due settimane sotto controllo. Sono uscito il 12 dicembre: in tutto 54 giorni in isolamento».
Poi, il rientro a Pechino e la normalità.
«No, non è finita. Perché i cinesi hanno una applicazione per poter circolare: codice rosso, giallo (bisogna isolarsi) e verde. Le autorità di Nanchino non avevano evidentemente inviato le informazioni a quelle di Pechino perché i due sistemi non si parlano. Ero rosso. Non potevo andare da nessuna parte, se entravo in un bar scattava l’allarme, c’erano controlli ovunque. La mia assistente ha fatto decine di telefonate. Solo dopo un mese con un nuovo tampone, stavolta a Pechino, il colore nello schermo del mio telefonino è diventato verde».
Il segnale della nuova libertà.
«Quando tutto è finito e ho ripreso a lavorare normalmente sono andato a una festa, in Cina hai bisogno periodicamente di uscire, perché noi occidentali viviamo il clima pesante delle città cinesi. Senti proprio il bisogno fisico di svagarti. Lì ho raccontato la mia storia, d’essere stato positivo e in un attimo sono rimasto solo, le persone attorno a me erano sparite».