«Il benessere dei giovani è un dovere dello Stato»

Secondo un sondaggio promosso dall’MPS a Bellinzona, un allievo su tre del medio superiore ricorre a lezioni private per raggiungere gli obiettivi scolastici. Il dato solleva una serie di interrogativi sulla capacità della scuola di rispondere ai bisogni degli allievi e, al contempo, di garantire equità di trattamento. Ne parliamo con il direttore di Pro Juventute Svizzera italiana, Ilari Lodi.
Professore, il sondaggio ha evidenziato che un allievo su tre ricorre a lezioni private in risposta a una scuola che sarebbe «troppo selettiva». È sorpreso?
«No, ma è un dato di fatto che negli ultimi anni questa pressione sugli studenti, tanto nel medio superiore quanto nelle scuole medie, sia andata aumentando in modo evidente. I motivi sono diversi, non da ultimo l’avvento delle nuove tecnologie. Questa crescente pressione è un tema molto delicato, di cui dovremmo occuparci tutti. Anche perché, quando si traduce in malessere, si riverbera ben oltre gli ambiti scolastici. I ragazzi dicono che non riescono a stare al passo, ma poi questo si riflette anche all’interno delle famiglie, nel circolo delle amicizie, nella vita sociale in generale».
Perché è così difficile rispondere a questa pressione?
«Perché è vissuta individualmente. Oggi viviamo in un contesto scolastico, ma anche professionale e familiare, che spinge molto sull’individualità. Sulla competitività. Vivere queste esperienze da soli, complica tutto. Non ti permette di riferirti a una collettività che potrebbe sostenerti. Ecco: a scuola, ma non solo, c'è un deficit di collettività».
Dal sondaggio emergono alti livelli di frustrazione per l’insuccesso scolastico. Come legge questo dato?
«Esattamente su questa linea. Oggi viviamo in un contesto in cui l’insuccesso è percepito come qualcosa di profondamente negativo, ed è in controtendenza con la storia dell’umanità. In realtà, la storia è fatta di insuccessi, e meno male. Ma oggi non c’è più spazio per il fallimento. Questo vale anche per gli adulti, ma loro hanno qualche strumento in più».
Ritiene che la scuola sia eccessivamente selettiva?
«Premetto che la scuola fa già moltissimo. Ma un modo per contenere questa spinta selettiva sarebbe di promuovere maggiormente l’approccio inclusivo. Come detto, c’è una dimensione collettiva da recuperare. Mi rifiuto di credere che un ragazzo di 17 o 18 anni non sia in grado di affrontare certi contenuti scolastici. I ragazzi sono nettamente superiori a questo tipo di difficoltà. Il problema è che si confrontano con queste difficoltà da soli».


Quindi, che cosa farebbe se potesse intervenire direttamente?
«Insisterei molto di più sul valore e sull’esperienza collettiva. Non solo perché sostiene i giovani nell’affrontare le difficoltà, ma anche perché è ciò di cui l’intera società ha bisogno. Le democrazie occidentali hanno bisogno di collettività. Soprattutto in questa fase storica. Altrimenti si finisce con la regola “ognuno per sé, Dio per tutti”, che storicamente non ha mai prodotto buoni risultati. Fuori dai denti e a costo di semplificare, aggiungerei anche che la scuola deve formare persone prima che lavoratori. Non basta essere competenti, prima di tutto bisogna essere delle persone, socialmente ed emotivamente pronte. Serve quindi una scuola che lavori sulla relazione, sulla costruzione dell’individuo attraverso la collettività. Sono convinto che in un contesto simile le individualità emergerebbero molto di più. Entrare nel mondo del lavoro è una tappa successiva, ma per farlo i ragazzi devono avere una personalità solida e matura».
Questo è un nodo centrale su cui la politica dibatte e si scontra da anni.
«Il fatto è che l’inclusività si misura solo nel medio-lungo termine. La pedagogia richiede tempi lunghi, come la crescita dei ragazzi. Non si può risolvere un problema oggi e aspettarsi i risultati domani. Bisogna insistere sul valore della collettività. Se oggi lasciamo indietro una parte di società, domani queste persone non verranno più a bussare alle nostre porte per chiedere aiuto: butteranno giù la porta».
Torniamo al tema iniziale. Aumentare le lezioni di recupero, quindi, non è sufficiente per risolvere tutti i problemi.
«Certamente, se fosse così semplice... Mi permetta però di sottolineare due cose. La prima è che, probabilmente, quel terzo che ricorre alle lezioni private oggi è chi può permetterselo. E ciò è socialmente ingiusto. La seconda è che, in questo meccanismo, un ruolo lo giocano anche i genitori, che spesso proiettano sui figli i loro timori legati al contesto di vita in cui si trovano. A prevalere quindi è la sicurezza dei genitori, per esempio legata al successo economico del percorso professionale del figlio, piuttosto che il benessere dei giovani».
Lei ha parlato dei tempi dell’educazione. Oggi sono troppo compressi?
«Assolutamente sì. Si pretende di fare sempre più cose nel minor tempo possibile, anche nell’apprendere. Ma la pedagogia ha tempi diversi, tempi lenti. Se non riesco a starci dentro, per usare un’espressione dei giovani, comincio a soffrire. E il rischio è il ritiro sociale. Questo accade più spesso di quanto si pensi».
E allora cosa servirebbe, a livello politico?
«Serve un atto di coraggio civile e politico. La scuola non può fare tutto da sola. Io vorrei vedere tutti i dipartimenti seduti attorno a un tavolo, con una sola priorità: il benessere di bambini e giovani. È un dovere dello Stato. Dobbiamo rimettere i giovani al centro. Non possiamo pensare che “solo i più bravi vadano avanti”. La scuola è il luogo dove si costruisce la collettività e dove ogni ragazzo, indipendentemente dal punto di partenza, può trovare uno spazio per crescere come persona. Detto ciò, credo che la scuola oggi abbia un’occasione straordinaria, ossia di essere ripensata dall’inizio. Lancio una provocazione, sì, ma sono fiducioso».