«Il calcio svizzero deve fare attenzione a Norvegia e Danimarca»

Il calcio svizzero ha un nuovo punto di riferimento. Si chiude l’era di Dominique Blanc, entrato in carica nel 2019, e si apre la presidenza di Peter Knäbel. Il 58.enne, già direttore tecnico della Federazione, è stato eletto alla testa dell’ASF. L’assemblea dei delegati, riunita a Ittigen, ha di fatto plebiscitato l’unico candidato rimasto in corsa. Una figura di rottura rispetto a un passato più conservativo.
Signor Knäbel, dopo il passo indietro del presidente della Lega Amatori Sandro Stroppa è stato eletto presidente dell’ASF da candidato unico. Un cattivo segnale da un punto di vista democratico, o un chiaro indicatore delle sue competenze e della sua forza elettorale?
«In realtà, io lo reputo un buon segnale per la democrazia del calcio svizzero. E per l’organizzazione che è chiamata a gestirlo. Scegliendo di ritirarsi, alla luce dei rapporti di forza che si stavano delineando, Sandro Stroppa ha preferito evitare strappi e divisioni tra le tre sezioni dell’ASF. Si tratta di una decisione personale che merita grande rispetto. Agli interessi individuali, infatti, è stato anteposto il bene della Federazione, messa in questo modo nella condizione di sostenere con convinzione la candidatura del sottoscritto».
Lei è stato giocatore ad alti livelli, allenatore, dirigente in Bundesliga, direttore tecnico proprio all’ASF e, da ultimo, esperto televisivo. Non le restava che riunire tutte queste esperienze nel ruolo di presidente?
«È proprio così. Nel presentare il mio profilo, ne ho sempre evidenziato la ricchezza. E parlo di prospettive e competenze differenti, da calciatore, quadro di un club o funzionario. Il percorso che mi ha spinto a questa elezione, insomma, è senz’altro coerente. Ciò non toglie che io abbia riflettuto molto sull’opportunità di candidarmi o meno per la presidenza dell’ASF, piuttosto che lanciarmi in un’altra sfida, magari all’estero. Ha contato anche l’aspetto famigliare, con la volontà di rimanere a vivere a Soletta. E una volta deciso di fare il passo, ho dato tutto per centrare l’obiettivo. Ero pienamente convinto della necessità di offrire all’ASF e al calcio svizzero un profilo esterno, da aggiungere alla candidatura interna di Stroppa. Molto va difeso, molto va sviluppato. Ed è il momento propizio per puntare su una figura come la mia».
Che ASF le lascia Dominique Blanc?
«Dominique ha diversi meriti. Parliamo di una persona che si è sempre mossa in modo autentico, confutando l’immagine del funzionario distaccato. Se poi osserviamo il suo lavoro, e gli obiettivi che ha raggiunto, beh, c’è poco da dire. Dell’Europeo femminile regalato al nostro Paese, per esempio, non beneficerà solo il movimento calcistico svizzero, ma l’intera società, destinata a fare un passo avanti. Come non citare, inoltre, i due quarti di finale a un grande torneo ottenuti dalla Nazionale maschile. La sua, detto altrimenti, è stata una presidenza segnata anche dai successi sportivi».
Aggiungiamoci anche il progetto di House of Football, lanciato verso una probabile realizzazione, e il consolidamento delle finanze della Federazione. Migliorare questo bilancio, francamente, sarà difficile. È pronto a prendersi il rischio di fare peggio?
«Non la metterei in questi termini. E poi le sfide, a tutti i livelli, non mi spaventano. Quando sono entrato a far parte del CdA dello Schalke 04, per esempio, il club stava attraversando una profonda crisi sportiva e finanziaria. Quando venni nominato direttore tecnico dell’ASF, per contro, la U17 aveva appena conquistato il Mondiale. «Che cosa potresti fare di più?» mi venne detto all’epoca. Ebbene, di fronte a un risultato molto buono io tendo a ragionare in termini di eccellenza. Oppure a valutare in che misura sta incidendo la concorrenza, perché determinati traguardi possono assumere più o meno valore a seconda delle forze in gioco. Anche salvaguardare un buon livello di competitività, dunque, potrebbe costituire uno sviluppo positivo per l’ASF, a maggior ragione se attorno a noi ci si muove nella giusta direzione. Perciò preferisco parlare di sfide. Dal tempo di gioco dei giovani calciatori svizzeri in Challenge e Super League, alla partecipazione alle fasi finali dei grandi tornei da parte della U17, U19 e U21 rossocrociate».
Ha parlato di concorrenza. A quali avversari deve prestare attenzione la Svizzera calcistica?
«Considerando realtà paragonabili alla nostra, per mezzi, cultura sportiva e bacino dal quale attingere, mi sento di fare due nomi: Danimarca e Norvegia. Se analizziamo i cinque principali campionati europei, il numero di giocatori norvegesi impiegati ha per esempio superato quello degli elementi svizzeri. Il che dimostra quanto bene si sia lavorato a queste latitudini. Mi viene in mente un club come il Bodo/Glimt».


A sponsorizzare la sua candidatura è stata la SFL e - in seconda battuta - la Prima Lega. Le dà o le ha dato fastidio essere etichettato quale candidato del «calcio d’élite»?
«Un po’ sì, non lo nego. Sono sceso in campo per tutto il calcio svizzero e il mio amore per questo sport non conosce leghe di riferimento. Detto questo, è previsto che a presentare le differenti candidature siano le sezioni dell’ASF. Da subito, però, ho chiesto al presidente del comitato della SFL Philipp Studhalter di non prendersi a carico l’organizzazione della mia campagna. A condurla sono stato io, in quanto profilo indipendente, con delle idee e una visione chiare. E lungo questo processo, il sostegno giunto in un secondo momento dalla Prima Lega ha indubbiamente rappresentato una svolta decisiva».
Come provare, tuttavia, l’attaccamento anche al calcio di base e amatoriale?
«Attraverso la prossimità e la presenza concreta nelle regioni. Dimostrando di comprendere le numerose sfide che attendono il calcio a questo livello e riconoscendo le peculiarità delle differenti aree del Paese. L’attività e lo sviluppo dei bambini, in questo senso, rappresenta il cuore dell’ASF. E tengo qui a ricordare l’iniziativa “Play more football», volta a promuovere l’inclusione, l’impegno sociale e l’accessibilità nel calcio di base e appena premiata dalla UEFA. La parola chiave, quindi, dovrà rimanere «innovazione». Bisogna continuare a cercare di essere un passo avanti alle altre federazioni, sfruttando la nostra piccola dimensione per implementare più rapidamente nuove idee».
Torniamo all’élite e alla Super League. Al termine di questa stagione, che a sorpresa ha consacrato il Basilea, quasi tutti sono concordi nell’affermare che si è assistito a un livellamento verso il basso della competizione. Quanto dobbiamo preoccuparci?
«Come ASF prestiamo particolare attenzione a due aspetti. Da un lato, per quanto riguarda i giovani calciatori nell’orbita della Nazionale, l’impiego nelle competizioni internazionali e il tempo che esso richiede. Dall’altro il ranking UEFA dei club svizzeri. E a proposito di quest’ultimo punto, è innegabile come l’arretramento di alcune posizioni - e le minori chance di accedere alla Champions League a partire dalla stagione 2026-27 - sia da considerare grave. Il terreno andrà assolutamente recuperato, ragionando su uno sviluppo a medio-lungo termine. La reputazione del calcio svizzero a livello internazionale - e il Lugano in questa stagione ha fatto il massimo - rimane cruciale, tanto quanto le opportunità che le nostre squadre riescono a dare a elementi di 19, 20, 21 anni. È una questione di esperienza, di valorizzazione in chiave mercato e, naturalmente, di potenziale a favore della Nazionale A. Non solo, e mi ripeto: si tratta anche di tenere il passo della concorrenza».
Non sembra pienamente soddisfatto. Perché?
«Più che altro osservo dei club che vivono delle fasi di sviluppo differenti. Ciascuno di loro, presto o tardi, ha conosciuto una crisi di risultati. E quale conseguenza principale si è creato un grande equilibrio. I ritorni di Shaqiri, Fassnacht e Zuber, per contro, hanno dimostrato quanto la Super League necessiti di personalità forti. E ben venga che ad alzare il livello del campionato siano stati giocatori svizzeri. Il risvolto della medaglia è però evidente: non sono emersi giovani di casa nostra in grado di assumersi una simile responsabilità, in grado di vestire i panni dei trascinatori. Ad approfittare della situazione sono stati davvero in pochi, e su tutti mi viene in mente Leon Avdullahu. Probabilmente si è divertito anche il pubblico, che ha riempito gli stadi. Ma insisto: il tempo di gioco dei talenti rossocrociati costituisce un indicatore chiave della qualità della Swiss Football League. Un indicatore al quale, dati alla mano, bisogna prestare grande attenzione. Per la fase transitoria di queste carriere - U17, U19, U21, Challenge e Super League - a oggi esiste un problema. È indiscutibile».


Come reagire?
«Non è qualcosa che può risolvere l’ASF da sola. In prima linea vi sono i club e le rispettive strategie. Il nostro compito, semmai, è di stimolare e sensibilizzare i dirigenti, spingendo per un’ottimizzazione dei citati tempi di gioco. Due sezioni su tre della Federazione - SFL e Prima Lega - sono investite di questa missione, ma in fondo pure la Lega Amatori, da cui passa lo sviluppo iniziale dei calciatori. La discussione sul tema andrà intensificata, anche grazie al gruppo di lavoro «formazione» che ingloba membri della SFL e dell’ASF. E per quanto mi riguarda attendo delle proposte circa i possibili interventi, non da ultimo al formato delle competizioni, per affrontare al meglio una variabile che incide sul 40% dei percorsi individuali».
La Challenge League è un campionato che va ripensato profondamente?
«Mi permetta di fare una premessa: puntare il dito contro la Challenge League, una sorta di terra di mezzo, è un esercizio fin troppo facile. E, in questo senso, il suo nome non aiuta. Il «challenge» doveva infatti essere quello dei giovani giocatori svizzeri, chiamati a misurarsi con gli elementi più esperti. Beh, la definizione in questione non si è tradotta nei fatti. I club interessati, d’altronde, spesso necessitano di stabilità, sicurezza, garanzie finanziarie. Dalla permanenza nella lega cadetta, insomma, dipende molto. Tornando al formato, credo che il punto di partenza debba essere una riflessione seria e coesa da parte di tutti gli attori coinvolti. Federazione compresa. Cambiare tanto per farlo non ha senso. Ma qualora si decidesse di andare in questa direzione, la nuova struttura del campionato dovrebbe poi rimanere tale e coerente per molti anni».
Il simbolo dei campioni svizzeri Xherdan Shaqiri ha dichiarato che bisogna prepararsi ad anni complicati per la Nazionale. Replicare i successi e i traguardi della sua generazione sarà difficile, per non dire impossibile. Concorda con questa visione cinica?
«In effetti suona un po’ negativo. Preferisco rimanere al concetto di sfida, una sfida vieppiù difficile. Ciascuno deve e dovrà fare la sua parte per permettere ai futuri giocatori della Nazionale di progredire in maniera intelligente. Shaqiri, per esempio, sa esattamente che tipo di allenatore e di sensibilità servono per favorire determinati percorsi di successo. L’esperienza dei veterani deve dunque fungere da stimolo per alimentare una cultura costruttiva, attraverso la quale permetterci di restare competitivi. Per dire: Xherdan ha deciso di investire nel Rapperswil: saprà e sarà disposto a investire sui talenti elvetici?».
Shaqiri rientra nella schiera di calciatori di origine balcanica che, a seguito della guerra e del fenomeno migratorio, hanno offerto alla Svizzera calcistica un valore aggiunto, forse una fame diversa. Coordinate e risorse, ora, sono però cambiate.
«L’integrazione rimane un aspetto essenziale per un Paese come la Svizzera, anche a livello calcistico. Bisogna dunque ragionare in termini strategici, continuando a chiedersi come sia possibile approfittare al massimo di questo fattore. Dopo tutto, gli scenari parlano di una Nazione composta da 10 milioni di abitanti. E quindi, come fare tesoro di un balzo in avanti di 2 milioni di persone? I bambini e gli amanti del pallone non spariranno, anzi. È però vero che, rispetto alla generazione di immigrati balcanici, l’attaccamento e l’identificazione nello sport potrebbero essere meno pronunciate. Occorrerà osservare la generazione Z e la considerazione che ha del calcio».


Quanto è pericoloso dipendere, da un punto di vista finanziario, dai risultati della Nazionale maggiore? E come compensare un eventuale periodo di magra a livello di grandi tornei?
«In effetti le ripetute qualificazioni alle fasi finali di Europei e Mondiali hanno dato grande stabilità all’ASF. E, osservando i recenti sviluppi, è nostra responsabilità prepararci a un futuro che potrebbe essere meno roseo. Come? Grazie a una strategia finanziaria a lungo termine, che tenga in considerazione più scenari. Dal 2022, in ogni caso, è stato creato un fondo nei quali confluiscono tutti i ricavi legati ai grandi tornei; soldi che vengono poi investiti a favore di giovani, calcio femminile o ancora il progetto di House of Football. Agire in questo modo permette alla Federazione di elaborare un budget indipendente, capace di coprire tutti i costi annuali. Detto questo, proprio alla luce dell’importanza che rivestono le fasi finali, è altresì fondamentale che si continui a fare il possibile per mettere la Svizzera nelle migliori condizioni di performare ad alto livello».
Da un punto di vista strategico, quanto sarà cruciale la sostituzione di Pierluigi Tami alla testa delle squadre nazionali, prevista a fine 2026?
«Anche Pierluigi, che conosco da tempo, ha parecchi meriti. E, certo, la sua sostituzione non va presa sottogamba. La decisione finale spetterà al Comitato centrale, ma posso sin d’ora assicurare che è mia intenzione affrontare la successione di Tami nei primi 100 giorni del mio mandato. Una due-giorni strategica, in cui discuteremo anche di questo dossier, è già stata agendata».
In quanto presidente dell’ASF, sarà chiamato a esercitare anche un mandato di politica sportiva. Qual è il suo giudizio sul presidente della FIFA Gianni Infantino?
«Come direttore tecnico dell’ASF mi ero già mosso a livello politico. Perché determinati progetti o banalmente il dialogo con i club rendono necessario ragionare in termini politici. In qualità di futuro presidente, va da sé, mi muoverò in un’altra dimensione, interagendo con Swiss Olympic, l’Ufficio federale dello sport e, certo, pure FIFA e UEFA. Il fatto che quest’ultime abbiano sede in Svizzera rende la situazione sicuramente particolare. L’importante è trasformare tale prossimità in un vantaggio. Quando conoscerò di persona Infantino, potrò per contro fornire un giudizio oggettivo sul suo lavoro. Spero di poterlo incontrare al più presto, fermo restando che le posizioni critiche assunte di recente dall’ASF - e penso a Qatar 2022 o all’attribuzione del Mondiale in Arabia Saudita - meritano di essere portate avanti con continuità. È una questione di cultura e di etica sportiva».