Il debito USA cresce troppo e qualcuno lo sta dicendo

Si fa presto a dire che le agenzie di rating sbagliano, che il loro giudizio arriva già a disastro compiuto e che non riescono mai ad anticipare il futuro. È vero che negli anni scorsi le principali imprese attive in questo campo (Standard & Poor’s; Moody’s e Fitch Rating), per usare un eufemismo, hanno preso lucciole per lanterne non vedendo arrivare – letteralmente – crac storici. È stato il caso all’inizio degli anni 2000 di uno dei fallimenti aziendali più importanti per le conseguenze sull’economia mondiale come quello della Enron (130 miliardi di dollari evaporati). Oppure, per restare a casa nostra, quello di Swissair più modesto in termini di capitale bruciato, ma dall’enorme impatto emotivo collettivo probabilmente nemmeno superato dal salvataggio in extremis di Credit Suisse lo scorso marzo. A ogni modo sia nel primo caso, sia nel secondo, il debito emesso da queste due imprese era valutato con la tripla A, il voto massimo. L’ottusità o la leggerezza di valutazione fu replicata qualche anno dopo con Lehman Brothers poi fallita nel settembre del 2008 e successivamente con il debito pubblico della zona euro, prima promosso nel suo insieme e poi regolarmente castigato quando si trattava di distinguere Stato per Stato tanto che nacque il termine PIGS (maiali in inglese), acronimo neanche tanto velatamente insultante e razzista, usato dalla stampa anglosassone dell’epoca per indicare il cattivo stato di salute della finanza pubblica delle economie mediterranee: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. In quel frangente emerse anche un palese conflitto di interesse perché spesso tali agenzie di rating operavano sia da valutatori sedicenti indipendenti, sia da consulenti remunerati dagli stessi emittenti.
Non è però sempre così. Il lavoro di valutazione di queste agenzie della bontà o meglio della solvibilità dei grandi debitori, siano essi grandi aziende, Stati o addirittura municipalità piccole o grandi, è fondamentale per orientare gli investitori e bacchettare gli emittenti troppo disinvolti. Spesso sono le stesse aziende o enti pubblici a chiedere un’analisi in vista di un’emissione obbligazionaria proprio per avere una certificazione terza e dare un prezzo (tasso d’interesse) più equo alla loro credibilità. In poche parole, dovrebbero avere un ruolo importantissimo nel rendere il mercato del debito più efficiente basandosi su informazioni neutrali e trasparenti. Per questo più che il declassamento in sé del giudizio sul debito pubblico statunitense da AAA a AA+ di Fitch (che è come dire da 6 a 5½ per usare le note scolastiche in uso in Ticino), sorprende la reazione della segretaria al Tesoro Janet Yellen (“decisione arbitraria”) e quella del presidente Joe Biden secondo i quali l’analisi si basa su dati non più attuali. Anche economisti di fama come il premio Nobel Paul Krugman e Larry Summers, già segretario al Tesoro ai tempi di Bill Clinton, hanno giudicato «bizzarra» la decisione di Fitch ritenendola una sponda all’opposizione repubblicana.
In questo caso però – lasciando da parte la logica politica polarizzante americana – Fitch scalzando gli Stati Uniti dal club della tripla A (composto da soli nove paesi, tra cui Svizzera e Germania) ha fatto correttamente il suo lavoro di analisi e mostrato una certa dose di coraggio avvisando gli attuali e i futuri investitori sui pericoli che corrono acquistando titoli di debito targato USA, economia dal doppio deficit: di bilancio e commerciale verso l’estero. Il declassamento oltre a riflettere il previsto deterioramento di bilancio pubblico nei prossimi anni che è sotto gli occhi di tutti (debito al 112,9% del PIL per quest’anno, molto al di sopra dei livelli pre-pandemia e soprattutto della media dei Paesi con tripla A che è del 39,3%), sintetizza bene l’attuale polarizzazione politica e il crescente debito che in prospettiva potrebbe arrivare al 185% del PIL in pochi anni.