Il peso di essere tra le stelle

Soltanto pochi giorni fa abbiamo festeggiato due nuovi ingressi ticinesi nel firmamento della gastronomia internazionale. E abbiamo titolato: «Due nuove stelle Michelin in Ticino». E poi abbiamo aggiunto: «La ristorazione ticinese esulta con i riconoscimenti all’Osteria Enoteca Cuntitt di Castel San Pietro e l’Osteria dell’Enoteca di Losone». Un’esultanza che vede in prima linea, naturalmente, i diretti interessati, anche perché la notizia in sé porta grande interesse nei confronti della proposta gastronomica dei ristoranti citati. Ma anche una maggiore pressione, che va a inserirsi in un contesto - quello della ristorazione - che vive su equilibri molto delicati. Chiunque abbia avuto a che fare, in famiglia, con un’attività di questo tipo, sa benissimo che cosa significhi. Lo si era visto, ancor meglio, durante il periodo - eccezionale, certo - della pandemia. Ma le stelle sono davvero un obiettivo reale, per chi lavora in questo campo? Ne abbiamo parlato con il presidente di GastroTicino, Massimo Suter.
Ambizione degli chef
«Il mercato dei ristoranti di alta gamma, e ancor di più dei ristoranti stellati, è un mercato molto di nicchia», precisa subito Suter. «È una nicchia che non rispecchia la totalità della ristorazione di una data regione, della ristorazione classica, pur di livello magari medio-alto. È tutta un’altra cosa. Gli stellati sono un’élite, in questo senso, una storia a parte, anche a livello di organizzazione, di gestione dei flussi finanziari. Sono gestiti in maniera diversa rispetto ai ristoranti più tradizionali, e spesso sono parte di un gruppo o sono legati a strutture alberghiere». Insomma, difficilmente un privato, magari a gestione familiare, può permettersi di rincorrere - anche finanziariamente - una stella. «Sì, spesso è un’ambizione dei cuochi, più che degli imprenditori. I cuochi ambiscono a essere riconosciuti a livello internazionale per le proprie capacità, per il loro lavoro. Gli imprenditori, semmai, guardano al rovescio della medaglia e mai e poi mai andrebbero a cuor leggero a cercare la stella, anche perché difficilmente l’investimento necessario viene coperto dalla presenza dei clienti. Spesso si parla di locali ridotti, da 20-25 posti, che difficilmente, quindi, possono finanziare brigate di cucina da oltre dieci persone».
L’attenzione ai dettagli
Insomma, se non è scontato raggiungere il firmamento - tutto il contrario -, altrettanto non lo è rimanerci. È un adagio, questo, non nuovo. Ma va comunque ripetuto. «Mantenere la stella ha un costo», ribadisce lo stesso Massimo Suter. «Perché le regole del gioco sono precise e severe, e toccano vari aspetti della ristorazione, la struttura, il servizio, la cantina dei vini, l’utilizzo di determinati prodotti di altissima qualità. E sono tutti costi. Certo, da un lato vi è la parte legata al gusto della proposta, ma dall’altra anche quella più estetica, cromatica, visiva, che impone una concentrazione estrema, l’attenzione massima al dettaglio, anche nel comporre i piatti. Per comporre ogni piatto, quindi, ci vogliono più persone. E difficilmente è un gioco redditizio». Spesso, come indica il presidente di GastroTicino, un ristorante stellato offre anche menù gastronomici, percorsi guidati, «e non tutti sono disposti a fare questo, magari con pochi posti a disposizione e costi che non vengono coperti semplicemente dalla clientela».
Eccezione Mendrisiotto
L’altra faccia della ristorazione ticinese, in questo preciso momento dell’anno, è rappresentata dalle rassegne, a cominciare da quella del Mendrisiotto. Lì troviamo proposte più tradizionali, ma all’interno di contesti non per forza di cose attualissimi. «Credo che la Rassegna del Mendrisiotto sia un unicum, la classica eccezione che conferma la regola. E la regola dice che le rassegne, in generale, stanno lentamente sparendo. Anch’esse sono vincolate, troppo, a regole e regolette, che i ristoratori, ma anche i clienti, non sono più disposti ad accettare. E allora troviamo rassegne che presentano numeri deficitari, e che quindi stanno pensando di rivedere i propri concetti, i propri valori. Ma è un’operazione complessa, che spesso fa da preludio alla cancellazione. Ecco allora che, in questo contesto, la Rassegna del Mendrisiotto è una vera e propria eccezione. È da sessant’anni sul mercato, ma viene ospitata da una zona già di suo particolarmente sensibile all’enogastronomia. Se dici Mendrisiotto, dici enogastronomia, saper vivere, mangiare bene. Un’equazione che non vale invece, perlomeno non per tradizione o di principio, per Lugano o per Bellinzona».
«Un onore e una responsabilità»
Bernard Fournier sa bene che cosa significhi avere addosso una stella Michelin. L’ha vantata a lungo, con il suo Da Candida, a Campione, prima della chiusura dello scorso giugno e l'annunciata ripartenza a Mendrisio. Oggi ricostruisce: «Noi lavoravamo a Trento. E allora neppure pensavo alla stella. Poi siamo arrivati a Campione, e lì tutto è cambiato. Per tre anni non siamo stati segnalati, dalla guida, ma poi ci arrivò la notizia della prima stella. All’inizio non ci credevo: ma come, in un posto così piccolo, con una cucina così piccola? Mi spiegarono che non era quello - la grandezza - a fare la differenza, e che tutto si basava solo sulla buona cucina». E dice: «È stato un onore, ma anche una grande responsabilità. Bisogna pensare alla mentalità del cliente. Ai tempi mi immaginavo un cliente che magari partiva da Milano verso Zurigo. A un certo punto, sentiva fame e cercava un ristorante sulla guida. Ci trovava e, a quel punto, usciva dalla strada e veniva a cercarci. Veniva apposta. E allora il minimo che potevo fare era rispettare quella stella». E ricordarsi di una cosa: «Come puoi prenderla, puoi anche perderla».
Lui la prese nel 1992. Poi, dieci anni dopo, di fronte a un bivio, ad alcune scelte difficili, perse in qualche modo la piena concentrazione. «Ero completamente giù», ammette. «E lo sentivo: quest’anno la perdiamo, dicevo. Quando arrivò la notizia, la vissi come una liberazione. Era diventata un peso. E scrissi alla Michelin per ringraziarli della bella esperienza». Dice: «Siamo uomini». E il peso dell’essere uomini spesso si riflette sul lavoro. Vale per tutti noi. «Poi mi ripresi, e sentivo che sarebbe potuta tornare la stella. E così andò». Ma davvero avere la stella porta a costi supplementari? «Non la vedo così», spiega. «Quando presi la stella, ricordo che la gente mi fermava, a Campione, e mi diceva: “Adesso alzerà i prezzi”. E io rispondevo: “Questo lo dice lei”. Non cambiai nulla». Poi Bernard Fournier inquadra il contesto di chi ottiene una stella. «Fermandoci al solo canton Ticino, possiamo azzardare che la maggior parte degli stellati sono bravissimi chef che lavorano all’interno di strutture alberghiere. Sono pochi gli chef patron». Per chef patron si intende, evidentemente, chef anche responsabili d’attività. «Gli chef non hanno una reale consapevolezza dell’aspetto economico di gestione e magari possono fare lo sbaglio di investire l’onore della stella in nuovo materiale, e quello ha sì un costo. Uno chef patron se ne rende conto e non può fare questo sbaglio». Insomma, una bella differenza. Lui era chef patron. E infatti la stella non gli è pesata, dice. Non in senso economico, perlomeno.