Il divano orientale

Il Progresso e lo Spirito

Se osserviamo il mondo degli ultimi cinquant’anni, esso si è molto più occidentalizzato di quanto si sia orientalizzato
Marco Alloni
Marco Alloni
25.05.2024 06:00

Quando parliamo di globalizzazione, parliamo in larga misura di occidentalizzazione. Vale a dire: se osserviamo il mondo degli ultimi cinquant’anni, esso si è molto più occidentalizzato di quanto si sia orientalizzato. Certo, abbiamo i nostri ristoranti arabi e cinesi, pleiadi di africani e asiatici che abitano le nostre terre, abbiamo il kebab e i wong tong. Ma l’aspetto del pianeta ricalca ormai, quasi in ogni sua parte, quella che potremmo chiamare la «forma occidentale»: da Calcutta a Istanbul l’american style è ampiamente dominante.

Che questo sia un fatto positivo o negativo non sta a noi giudicarlo. Di fatto, non è ancora in atto una globalizzazione multidirezionale: il mondo è diventato molto più simile a come lo vorrebbe l’Occidente di quanto potrebbe diventare se declinato in forma orientale. Ci siamo quasi tutti occidentalizzati e assai meno orientalizzati.

Quel grande «Oriente intermedio», come è stato chiamato, che è la Russia, ha espresso tuttavia con Dostoevskij almeno una preoccupazione: «È forse il progresso l’unica priorità dell’umano? E lo Spirito?». Sì, in fondo questa attuale forma di globalizzazione ci pone di fronte a un antico interrogativo: e lo Spirito? E le pretese dello Spirito?

Nella frenesia progressista in cui viviamo è difficile immaginare che – come nel Medioevo «Dio» – lo «Spirito» abbia oggi ancora voce in capitolo nella sua sfida al concetto di «Progresso». Ma in effetti non si può negare che proprio l’Occidente si senta da decenni in parte orfano di Spirito. Il proliferare di sette orientaleggianti lo dimostrerebbe. Ma soprattutto lo dimostra un sentimento latente, sempre più diffuso: che laddove «Dio è morto», la globalizzazione in cui siamo immersi ci soddisfa sempre meno. Giacché non solo il cosiddetto benessere occidentale è sempre meno garantito – l’impoverimento della classe media è sotto gli occhi di tutti, il precariato è oggi trasversale – ma la civiltà del progresso si rivela sempre meno sufficiente a soddisfare la domanda: che ci facciamo al mondo?

Lo Spirito, in qualsiasi declinazione esso sia espresso, ha spesso cercato e saputo dare una risposta a tale domanda. La cultura del progresso, viceversa, ne ha formulata una non sempre convincente: siamo al mondo per stare meglio dei nostri avi.

È vero, oggi stiamo meglio dei nostri avi: scienza, medicina, tecnica e industria ci risparmiano da molti dei loro patimenti e delle loro fatiche. Ma l’Oriente continua nondimeno ad ammonirci: ne siamo proprio sicuri? Siamo sicuri che questo «stare meglio» economico, questo «stare meglio» biologico e materiale, questo «stare meglio» del povero guru del Punjab, ci ponga effettivamente a un livello di maggiore benessere umano?

La risposta è naturalmente soggettiva, ma certo non può prescindere da una considerazione di carattere generale: una globalizzazione che proceda sulla sola strada del progresso «esteriore» – e nella cui orbita il denaro sembrerebbe diventato l’unico criterio dirimente – rischia di smarrire dietro di sé quella parte «interiore» senza la quale forse arriverà a compromettere la stessa sopravvvivenza dell’umano.

E Dostoevskij bisogna sempre prenderlo sul serio: se si toglie lo Spirito all’uomo, l’uomo esulta dapprima ma perisce poi. Occidentale avvisato, mezzo salvato!