Il Venezuela di Maduro e l'incubo repressione
Gli Stati Uniti e l’Argentina hanno riconosciuto la vittoria del candidato dell’opposizione, Edmundo Gonzalez Urrutia, nelle elezioni presidenziali svoltesi in Venezuela lo scorso 28 luglio. Numerosi altri Paesi hanno chiesto che i risultati del voto nel Paese sudamericano siano trasparenti. Ma il presidente uscente, il dittatore Nicolas Maduro, respinge tutte le accuse di brogli e, dopo essere stato proclamato vincitore dal Comitato nazionale elettorale (CNE) controllato dal regime, ha già iniziato a mettere in pratica le minacce che aveva pronunciato prima del voto (“se vince l’opposizione ci sarà un bagno di sangue”).
Nelle proteste di piazza scoppiate nel Paese dopo l’annuncio della vittoria del delfino di Chavez si contano già a decine morti e feriti, mentre i manifestanti arrestati sono quasi duemila. Per oggi, sabato, la leader dell’opposizione Maria Corina Machado, ha chiamato tutto il Paese a scendere in piazza per protestare pacificamente contro la frode elettorale. Il rischio di ulteriori violenze appare molto elevato, in quanto il regime non sembra disposto a sottoporre la verifica del materiale di voto a una commissione indipendente.
Milioni di venezuelani si erano illusi che le elezioni presidenziali dello scorso 28 luglio avrebbero riaperto nel Paese le porte della democrazia, favorendo il ritorno di almeno una parte di quei 7 milioni di connazionali che da anni hanno lasciato il Venezuela per sfuggire alla dilagante crisi economica (originata in parte anche dalle pesanti sanzioni USA) e alla crescente repressione di un regime sempre più violento.
I sondaggi che nelle settimane prima del voto attribuivano una chiara maggioranza al leader dell’opposizione Edmundo Gonzalez, sono stati spazzati via dal precipitoso verdetto del CNE che ha attribuito a Maduro il 51,2%, con l’80 per cento delle schede scrutinate, dichiarandolo vincitore della competizione elettorale. Un modo di procedere piuttosto anomalo. Di fronte alle diffuse accuse di brogli il Governo si è difeso attribuendo i ritardi nel conteggio dei voti a un attacco informatico. Sta di fatto che a cinque giorni dal voto manca ancora la divulgazione dei conteggi e Caracas rifiuta un processo trasparente di verifica dei voti.
Del resto il fatto che al regime chavista la trasparenza e le regole democratiche stessero un tantino strette era noto da tempo. Nel Paese tv e giornali sono sotto lo stretto controllo del regime e l’opposizione riesce a diffondere le proprie opinioni solo attraverso i social media. Chi contesta l’Esecutivo rischia grosso: il carcere duro e, nella peggiore delle ipotesi, la sparizione. Per intimorire l’opposizione Maduro in questi giorni è arrivato a minacciare l’arresto del candidato presidenziale Edmundo Gonzalez e della combattiva attivista politica Maria Corina Machado.
La Machado, tra l’altro, era la candidata che l’opposizione aveva scelto per le elezioni presidenziali. Ma, proprio come accade in Russia o in altri regimi liberticidi, il Governo chavista le aveva impedito di prendere parte alla competizione elettorale. Quello in atto in Venezuela non è più il classico scontro tra partiti di sinistra e formazioni di centro o di destra. La battaglia in questo Paese è tra difensori della democrazia e sostenitori di un regime dispotico, che pur di rimanere nella stanza dei bottoni è disposto a tutto.
Maduro ha già annunciato la creazione di nuove carceri in cui rinchiudere chi oserà contestare la sua vittoria basata sulla frode e sulle minacce. Prima del voto è stato negata l’entrata nel Paese a giornalisti e osservatori politici provenienti da diversi Paesi, provvedimenti adottati anche nelle ultime ore. Un preoccupante segnale della volontà del regime di usare di nuovo la repressione nel Paese, tenendo alla larga scomodi testimoni.