Musica

Imperdibili cinquantenni

Il 1973 fu uno dei mitici periodi in cui il rock raggiunse il suo apice grazie alla pubblicazione di alcuni dischi di vari generi che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, rappresentano degli indiscussi punti di riferimento sia creativi sia tecnici – Proviamo a riscoprirne alcuni
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Mauro Rossi
09.01.2023 14:28

Sono in molti a ritenere che i primi anni Settanta siano quelli in cui il pop-rock ha raggiunto il suo apice, approfittando da un lato dell’esperienza maturata durante le feconde stagioni del beat, della psichedelia, del flower-power, del blues revival e di tutte le correnti che caratterizzarono la musica del decennio precedente, dall’altro dello sviluppo della tecnologia (su tutte l’arrivo dei sintetizzatori) e di sofisticate tecniche di registrazione che consentivano cose fino a pochi anni prima ritenute quasi fantascienza. E di quel felice periodo il 1973 è stato tra le stagioni più significative, in quanto caratterizzato dalla pubblicazione di una serie di dischi che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, sono dei punti di riferimento assoluti della cultura pop.

Il principale di questi «imperdibili cinquantenni» è The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, caposaldo indiscusso della discografia (dalla sua data di pubblicazione, nel marzo 1973, è infatti rimasto ininterrottamente nelle classifiche dei dischi più venduti per oltre 900 settimane!) ma anche, artisticamente, il lavoro probabilmente più articolato e completo sia della band inglese sia di quel movimento prog-psichedelico di cui è stata uno dei punti di riferimento: un concept-album che ruota attorno a varie tematiche (il consumismo, l’avidità, il tempo che scorre ma anche quel «lato oscuro» che tutto ciò è in grado di generare) sviluppate musicalmente utilizzando apparecchiature all’avanguardia spesso usate in modo anticonvenzionale se non addirittura rivoluzionario.

Su un utilizzo decisamente innovativo delle tecniche di registrazione poggia anche Tubular Bells, opera prima dell’allora ventenne britannico Mike Oldfield: due suite strumentali di 25 minuti cadauna in cui il giovane, spaziando con disinvoltura tra rock, musica classica, folk e minimalismo, suona da solo una trentina di strumenti sovrapponendo poi le varie parti facendo ricorso a quella tecnica delle sovraincisioni che se oggi rappresentano una regola, allora era decisamente un qualcosa di inedito, soprattutto a quei livelli.

Un altro giovanissimo che nel 1973 firmò un disco destinato ad entrare tra i più importanti di sempre fu Stevland Hardaway Judkins, alias Stevie Wonder, che con Innervisions impresse una svolta fondamentale nell’evoluzione della musica «black» rielaborando quell’idea di soul e funk appresa sin da bambino-prodigio in casa Motown, aggiungendovi sfumature jazz e latino-americane, attingendo alle possibilità sonore offerte dai sintetizzatori e dalla tecnologia e rendendo questa miscela ancora più esplosiva grazie ad una vena compositiva e pop decisamente unica.  

Tra i dischi fondamentali realizzati nel «magico» 1973 non può mancare Alladin Sane di David Bowie in cui Mr. Jones sposta Ziggy Stardust dallo spazio agli… USA dando un’impronta più globale alla sua musica fino a quel momento totalmente «brit» e da quel momento in poi aperta anche ad altri stili e influenze in un esplosivo «mash up» da cui tantissimi artisti avrebbero poi tratto ispirazione. Idem per Head Hunters di Herbie Hancock in cui uno dei massimi compositori jazz (titolo che purtroppo la critica, soprattutto quella più… reazionaria, fatica a riconoscergli) provoca nel panorama della musica improvvisata uno scandalo ancora maggiore di quello causato da Miles Davis ai tempi di Bitches Brew con l’elettrificazione di stampo rock delle sue sonorità. Già, perché l’ex tastierista di Miles (e sì, c’era anche lui in quell’incredibile squadra) va oltre alle provocazioni del «maestro» abbandonando ogni riserva nell’accostarsi al funk e alla black music «commerciale» e portando per primo il jazz in luoghi fino a quel momento considerati tabù: le discoteche.

 Ma il 1973 fu anche l’anno in cui pubblicava il suo primo disco Bruce Springsteen (quel Greetings from Asbury Park, N.J. che malgrado avesse venduto solo 25.000 copie nel primo anno dalla sua pubblicazione è stato poi rivalutato dalla critica e dal pubblico tanto che molte delle sue canzoni sono divenute dei punti fissi dei concerti del Boss); nel quale in Florida, con Pronounced ‘Lĕh-’nérd Skin-’nérd, i Lynyrd Skynyrd prendevano le redini del movimento southern rock, del quale saranno per sempre ricordati come il gruppo più famoso e, soprattutto, caratteristico; e durante il quale in Inghilterra Elton John con una doppia pubblicazione (Don’t Shoot Me I’m Only the Piano Player e Goodbye Yellow Brick Road) si confermava star assoluta di quell’ibrido musicale che da quel momento in poi si sarebbe chiamato soft rock.

Anche l’Italia nel 1973 non mancò di far sentire la sua voce con prodotti passati alla storia. Tra le terre più fortunate del «prog» (che quell’anno salutò la pubblicazione di Selling England by the Pound, uno dei più felici album dei Genesis e di Larks’ Tongues in Aspic dei King Crimson) la Penisola salutò infatti la nascita di uno dei collettivi più rivoluzionari dell’intero movimento, gli Area di Demetrio Stratos che già con il provocante titolo del loro LP d’esordio, Arbeit Macht Frei (il lavoro rende liberi - la scritta che i deportati ebrei potevano leggere una volta giunti ai cancelli del campo di sterminio di Auschwitz), mostravano chiaramente lo spirito avanguardistico dell’ensemble sia a livello musicale (un prog rivisitato in chiave fortemente jazz) sia a livello di testi fortemente politicizzati. Altrettanto importanti quell’anno furono le pubblicazioni di Storia di un impiegato di Fabrizio De André, il racconto in musica di una ribellione, sognata, tentata, fallita e, infine, paradossalmente riuscita e Il nostro caro angelo di Lucio Battisti nel quale accanto a d un paio di indimenticabili ballate (la title-track e La collina dei ciliegi) l’artista romano inserì elementi musicali ricercati e d’avanguardia che fanno di lui qualcosa in più di un «semplice» cantautore, bensì un vero rivoluzionario della musica contemporanea, troppo spesso non considerato in questa veste.