Il reportage

In dogana, dove il tempo non passa mai

Non tutti gli ucraini fuggono: molti fanno la spola per prestare aiuti e soccorso nonostante i fitti controlli al confine
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
10.03.2022 06:00

Irina sta entrando in Ucraina. Non ha la faccia contenta. Come potrebbe. Nel suo Paese c’è la guerra. E in più la guardia di confine ucraina ci sta mettendo troppo a controllarle i documenti. Li ha presi e se n’è andata chissà dove con la faccia imbronciata o forse solo molto stanca. Così Irina torna in auto, ma solo per un secondo, perché spegne il motore della Mercedes, si rimette in piedi e incrocia le braccia. La dogana di Ubl’a in Slovacchia è piccola come il paese da cui prende il nome. Quattro case e una piazza. Attorno solo boschi e colline. La città più vicina è Kosice. A oltre 200 chilometri. Piccola e discosta non significa però più veloce, sta pensando Irina. Che ha già dovuto passare i controlli delle guardie di confine slovacche e quelle ucraine. Due finestrine da cui sbucano due facce e due atteggiamenti differenti. Cordiali e sorridenti le prime. Brusche e lente le seconde. Due mondi diversi nello spazio di pochi metri. Anche la doganiera che le ha preso per la terza volta il passaporto blu è ucraina. L’ha aspettata un po’ più avanti. Sul marciapiede e prima della sbarra. Irina aspetta, ma il tempo non sembra passare mai. Anche se lei sta facendo esattamente l’opposto dei suoi connazionali. Che fuggono dall’Ucraina. E non ritornano. Come invece ha scelto di fare Irina. Che non è comunque l’unica. Perché il via vai di auto con lo stemma giallo e blu nella targa non è raro. Anzi. Anche questi sono aiuti umanitari. Forse meno visibili. Forse meno eclatanti. Ma presenti. Importanti. Fondamentali. Ucraini che aiutano altri ucraini. Con cibo, vestiti e scorte di medicinali. O anche dando semplici passaggi a chi non se lo può permettere. Del resto, attraversare la frontiera in tempo di guerra è permesso senza problemi ai soli cittadini ucraini. Tutti gli altri devono avere un’autorizzazione, un lascia passare. Così in questi giorni frenetici, in questi giorni di ondate di profughi e di risposta umanitarie, si è messa in moto anche la catena della solidarietà gialla e blu. Dagli ucraini per gli ucraini.

A pochi passi dalla pace
La doganiera arriva, finalmente. Cammina con ampie falcate e la divisa sembra starle meno larga lungo le spalle. Dà i documenti a Irina e rientra nel suo gabbiotto. Mentre proprio in quel momento tre donne ucraine le sfilano davanti. Vanno in Slovacchia. Come quasi tutti. Quasi. Una di loro trasporta due gatti in una gabbietta. I felini strillano muovendo nervosamente le zampe. Dall’altra parte della corsia, quella che conduce in Slovacchia, sbuca un giovane militare ucraino. Ha la cuffia ben calcata sulle orecchie e una sciarpa verde che gli copre il viso. Si offre di aiutare. Prende la gabbietta e segue la padrona dei gatti fino dall’altra parte, sotto gli sguardi di chi è fermo da diversi minuti in auto. Finestrini abbassati. Sguardi circospetti. O forse sono annoiati. Anche gli ucraini che sono arrivati fino a lì, a pochi passi dalla pace, a bordo delle loro vetture hanno seguito una trafila interminabile. Certo, qui, a Ubl’a, il tempo di attesa non è misurato in giorni. Ma serve comunque tanta pazienza. Controlli in uscita dall’Ucraina. Controlli in entrata per la Slovacchia. Ma non solo.

La tendopoli
Irina sale in macchina, accende il motore e dal tubo di scappamento si alza del fumo nero. La Mercedes non è nuovissima e attira lo sguardo dei militari ucraini appostati prima della dogana. Sono in tre e hanno il compito di gestire il traffico. Sono loro a fare ampi gesti a chi è in auto. Ad autorizzarli ad avanzare verso la Slovacchia. Avranno al massimo 30 anni. Hanno divise tutte diverse e portano il fucile dietro la schiena appeso a tracolla. Quando non dirigono il traffico parlano tra loro e con le radioline. Non sembrano agitati o preoccupati. Danno le spalle alla dogana. Hanno lo sguardo piantato sulle auto, ma con gli occhi guardano anche altro. E non è la Slovacchia.

Irina non ha bisogno di sapere cosa stanno guardando. Non solo perché ci è passata all’andata, nel viaggio che ha fatto verso uno dei Paesi confinanti che non è bombardato dalle bombe russe. Non ha bisogno di scoprirlo perché quello che hanno allestito gli ucraini a poche decine di metri dalla frontiera assomiglia molto a quello che hanno organizzato gli slovacchi dall’altra parte. Un campo profughi. Tendoni, bivacchi, camionette. Tutto il necessario per fornire assistenza. Irina ci arriva in un attimo. Toglie il gas dall’acceleratore. Segue il percorso obbligato che ha già fatto altre volte e supera il secondo tronco di auto in fila. Che vanno nella direzione opposta alla sua. E che prima di arrivare in dogana devono superare la tendopoli ucraina, i controlli dei propri connazionali e quelli dei Paesi ospitanti. Un pezzo del loro tempo che in molti si sentono di affrontare, di questi tempi.

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