Krug incontra il Ticino con Julie Cavil: «Le donne portano un altro sguardo anche nello champagne»

L’abbiamo incontrata nel fresco della cantina dell’Osteria Cuntitt, mentre fuori il luglio ticinese si faceva sentire con tutto il suo sole. La luce era tenue, le bottiglie ordinate lungo i muri, e un silenzio vibrante accompagnava la voce di Julie Cavil. Chef de Caves della Maison Krug dal 2020, prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia della maison, Cavil era in Ticino per un’esclusiva serata del progetto “Krug in the Kitchen”, quest’anno dedicato alla carota. Protagonisti della serata: lo chef stellato Federico Palladino, cuvée rare, ospiti attenti e un dialogo continuo tra cucina e champagne. Ma prima di tutto, il tempo.

Julie, ogni anno Krug sceglie un ingrediente universale da
affidare agli chef Krug Ambassades nel mondo. Quest’anno tocca alla carota.
Perché proprio lei?
Non c’è una ragione simbolica, e proprio per questo mi
piace. La carota è ovunque, ma quasi mai celebrata. Sta nelle basi, nei
soffritti, nei brodi, eppure ha una forza straordinaria. Dolce, speziata,
croccante, cremosa… può trasformarsi in mille forme. Questo la rende perfetta
per il nostro progetto: stimola la creatività, ma richiede anche umiltà. Ogni
chef la legge con il proprio alfabeto sensoriale, ed è proprio questa pluralità
di interpretazioni che ci interessa. Un solo ingrediente, infinite voci.
Anche nel vostro lavoro ci sono moltissime variabili da
mettere in relazione. Come nasce una Krug Grande Cuvée?
Nasce con la vendemmia, ma anche con quello che è venuto
prima. Ogni anno degustiamo circa 400 vini, tra quelli dell’anno e le nostre
riserve. Ogni vino è un individuo, con una storia, un’origine, un carattere.
L’assemblaggio è come un dialogo: alcuni vini si cercano, altri si respingono.
Non imponiamo mai un’armonia preconfezionata, ma ascoltiamo ciò che si crea
naturalmente. È un processo lungo, quasi musicale. L’obiettivo è uno solo:
creare ogni anno la più generosa espressione dello Champagne, indipendentemente
dall’annata.
Quali sono i tratti distintivi della 173ª edizione della
Krug Grande Cuvée, protagonista qui al Cuntitt?
È nata da una vendemmia complessa, quella del 2017: gelate
primaverili, poi un’estate estrema. Il vino base proviene da quell’anno e
rappresenta il 69% dell’assemblaggio. Il resto è affidato a vini di riserva,
provenienti da 13 annate diverse, fino al 2001. In tutto abbiamo scelto 150
vini. Il risultato è una cuvée strutturata, precisa, ma anche luminosa, con una
bella tensione minerale. È un vino che cresce nel calice, che ha bisogno di
tempo per aprirsi. Ed è proprio questo che amo: la sua discrezione, la sua
profondità paziente.

Il tempo sembra essere la vera chiave di tutto.
Sì, il tempo è la nostra materia prima invisibile. I vini
non maturano solo in bottiglia, maturano in noi. Con il tempo, cambia il nostro
modo di assaggiare, di interpretare, di scegliere. Il tempo ci insegna a
riconoscere ciò che vale la pena aspettare. È lui che decide quando una cuvée è
pronta, non noi. A volte bastano due anni, a volte dieci. È una danza lenta,
che si fa in silenzio. Il tempo è anche quello che ci permette di lasciare
spazio alle intuizioni. Se lavori troppo in fretta, perdi l’occasione di
ascoltare davvero.
Durante la serata ha assaggiato i piatti dello chef
Palladino. Che impressione le hanno lasciato?
Una cucina vera. Pulita, precisa, ma mai fredda. Palladino
lavora con grande coscienza: ogni piatto aveva un centro, una direzione. E la
carota non era mai decorativa, sempre pensata, sempre necessaria. Gli
abbinamenti erano calcolati con intelligenza, ma anche con una certa poesia. Si
sentiva l’ascolto reciproco con il vino, il desiderio di dialogare e non di
impressionare. Mi ha colpita il suo modo di parlare attraverso i sapori: dice
molto senza mai alzare la voce. È un tipo di cucina che rispetta il tempo e lo
trasforma in gusto.
Che ruolo ha per voi il formato della bottiglia?
Un ruolo spesso sottovalutato, ma fondamentale. Il formato
cambia l’ossigenazione, e quindi l’evoluzione. Un Magnum conserva la
freschezza, ne amplifica la finezza. Un Jeroboam la rallenta, la rende più
profonda, più scura nei toni. Per noi ogni formato è una partitura diversa: il
vino resta lo stesso, ma suona un’altra musica. È come sentire la stessa
melodia eseguita al pianoforte o al violoncello. Per questo nelle serate come
questa ci piace portare formati diversi: per far percepire il tempo in modo tridimensionale.

Nel mondo del vino e del lusso si parla spesso di
esclusività. Per lei che cos’è il vero lusso?
Il lusso, per me, è autenticità. Non ha a che fare con
l’ostentazione, ma con la verità del momento. Un calice di Krug può essere
condiviso con una grande tavola o in silenzio, da soli, magari con un piatto
semplice. L’importante è che ci sia connessione: con sé stessi, con chi ci sta
accanto, con ciò che si beve. È quel momento in cui il tempo si ferma, e tutto
ha senso. Quello è il lusso.
Crede che la Champagne debba cambiare nei prossimi anni?
Sta già cambiando. Il clima è diverso, i ritmi sono diversi,
i consumatori anche. Ma cambiare non significa snaturarsi. Per noi significa
restare fedeli ai nostri valori, adattandoli con intelligenza. Stiamo lavorando
molto sul vigneto: preservare la biodiversità, proteggere le vecchie viti,
ridurre l’intervento. In cantina, sperimentiamo con delicatezza, su piccole
scale. Vogliamo continuare a essere pionieri, ma con responsabilità. Non ci
interessa stupire, ma durare. La sfida non è adattarsi per moda, ma evolvere
per convinzione.

In che modo il suo ruolo di Chef de Caves è cambiato in
questi anni?
C’è una parte più visibile oggi, sicuramente. Incontro più
persone, racconto di più. Ma la sostanza è la stessa: essere custode di una
visione, e guidare la sua evoluzione. Il lavoro vero si fa in cantina, in
silenzio, insieme alla squadra. È un lavoro collettivo, anche se spesso se ne
parla al singolare. Nessuna cuvée nasce da sola. E dietro ogni bottiglia c’è
una moltitudine di gesti invisibili, ripetuti con cura giorno dopo giorno.
E cosa la emoziona ancora, dopo tanti anni?
Ogni volta che una cuvée trova la sua voce. Quando, dopo
mesi di degustazioni, tentativi, ripensamenti, arriva quel momento in cui tutto
si allinea. È una sensazione fisica, quasi musicale. E ogni volta è nuova. Non
ci si abitua mai. E poi c’è l’incontro con chi beve: il momento in cui quel
lavoro lungo, intimo, silenzioso diventa esperienza viva, condivisa. È lì che
tutto prende senso.