La Chiasso internazionale, ovvero l'arte dell'arrangiarsi

Remigio Ratti cammina all’interno della stazione di Chiasso e sembra quasi ritornare bambino. «Mio papà lavorava proprio lì». Io rispondo: «E il mio lavorava là». Entrambi figli di ferrovieri, cresciuti a treni e ramina. Il Mendrisiotto di oggi porta i segni di quanto deciso 150 anni or sono. Chiasso divenne stazione internazionale e, nel giro di 40 anni, esplose: dai 1.300 abitanti del 1870 agli oltre 6.000 del 1910.
Nella stazione internazionale di Chiasso avanzano i lavori. Gli operai si mischiano al personale delle FFS, alle guardie di confine, ai viaggiatori e ai migranti. Lo spazio per muoversi è ristretto. «Ma dove sono andate l’Italia e la Svizzera?». Remigio Ratti ha una valigetta in mano e si muove nell’atrio con leggerezza, come se fosse a casa sua. La statua è stata coperta, saggiamente, da un cassone. È il simbolo della stazione, o forse di Chiasso tutta. L’Italia e la Svizzera che si abbracciano, raffigurate con generosità e un pizzico di ambiguità. Lì sul confine, un confine che ne ha viste tante. «Mio papà aveva l’ufficio proprio lì». Remigio Ratti si sposta oltre la nuova biglietteria e sembra cercare una porta. Un operaio si frappone tra lui e i ricordi. Ci fermiamo. «Doveva essere proprio lì». Sembra tornare bambino, quando da Balerna scendeva a Chiasso con il papà. «Era un papà severo». Era capostazione. «Era severo anche sul lavoro. Ed era PPD, ma in quel momento comandavano i liberali. E allora crearono una nuova carica per lui, sostituto ispettore». Lo racconta divertito all’inizio di una passeggiata che ci porterà poi lungo i binari della ferrovia sino ai magazzini e oltre. Arriveremo al Punto Franco. Passeggiare e chiacchierare, a Chiasso, a 150 anni dalla decisione di fare di queste strutture - che all’epoca non erano nulla, se non una palude tra Breggia e Faloppia - una stazione internazionale. Il Mendrisiotto cambiò volto.
Le storielle
Chi lo conosce lo sa, Remigio Ratti è un fiume in piena. Specie quando parla di trasporti. Era così già da ragazzo. I compagni lo prendevano in giro, tanto lui era appassionato. Sarebbe diventato professore di economia spaziale. Dove lo spazio non è quello con la S maiuscola, bensì quello che ci circonda, quello bidimensionale che ci separa o unisce. Apre parentesi e si diverte a raccontare quelle che lui definisce «storielle». Di tanto in tanto si ferma e poi prosegue, stazioni del pensiero lungo il cammino. «Andiamo di là». «Torniamo lì, ai magazzini, che poi le racconto un’altra storiella». Gli dico che tutto fa brodo. Ed è così, perché la storia di Chiasso è fatta di storielle. Passiamo anche accanto a quel binario che vide John Wayne salire su una locomotiva per poi essere immortalato in una foto entrata dritta dritta nella leggenda della cittadina. Osserviamo la variegata flora ferroviaria, quella ben raccontata da Ernesto Schick. Nel mentre, sui binari transitano, con poca costanza, i treni. «Mi piace viaggiare in treno, ma ormai non guardo neppure più gli orari», ammette Remigio Ratti, mentre cerca un po’ di ombra sotto il cappellino. Il sole batte con vigore e la pensilina è ormai terminata.
Gli insegnamenti del padre
«La mia storia con Chiasso?», si illumina Remigio, anzi «il» Remigio. «È una bellissima storia di famiglia e di lettura del territorio». Fischia un treno sullo sfondo, con un tempismo raro. «Per me, comunque, un treno non è mai stato solo un treno. È uno degli insegnamenti di mio padre. Mi disse, un giorno, e lo ricordo come se fosse ieri: “Quando vedi un vagone, quello è sì un vagone, ma poi che cosa c’è dentro? Da dove viene la merce che trasporta, e dove va? E chi la muove?”. Ogni vagone merci aveva una sorta di finestrella, coperta da una griglia di ferro. All’interno, un foglio che riportava tutte le informazioni utili, compreso il nome del mittente. Quando un treno arrivava a Chiasso, quei fogli sparivano: le informazioni riportate erano sì utili, ma soprattutto per chi voleva rubare un cliente alla concorrenza». Ratti ricorda la figura di Bruno Caizzi, eminente storico milanese, suo professore alla Scuola cantonale di Commercio. «Quando i compagni mi prendevano in giro, lui li ammoniva, e diceva: “Nel mondo, è importante avere sempre un punto d’entrata. Che poi andate dappertutto. E se questo punto d’entrata sono i trasporti, be’ andrete lontano”». Sembra quasi lo slogan della sua vita. «Anche al recente forum di Eusalp, a Lugano, qualcuno ha ricordato che “chi si interessa di trasporti, si interessa di futuro”. È così». Nel rileggere la storia di Chiasso, quale stazione internazionale, c’è il tentativo di capire chi siamo oggi, e pure di leggere quali potrebbero essere le nostre prospettive. Chiasso, sia chiaro, è Chiasso perché - 150 anni fa - le è stata assegnata la responsabilità di essere stazione internazionale. La frontiera, da sola, non sarebbe bastata.

Più marginale di Riva San Vitale
Come ricorda lo stesso Remigio Ratti, fino alla prima metà dell’Ottocento Chiasso non era che un piccolo borgo, «nettamente inferiore per importanza a Mendrisio, Stabio, Balerna o Riva San Vitale». Ancora nel 1870, a soli tre anni dalla decisiva Conferenza di Berna, gli abitanti della cittadina erano 1.329. Sono poi cresciuti di pari passo con la stazione e la ferrovia, e il passaggio di merci. Nel 1888 erano 2.445. Nel 1900 erano 4.136. E nel 1910 addirittura 6.249. Lo stesso vale per le merci trasportate, con Luino rapidamente surclassata per importanza. La stazione di Chiasso era stata inizialmente concepita come stazione locale. Poi crebbe e venne rinnovata. «Qui - e guarda avanti, verso i binari che si susseguono come i pioli di una scala orizzontale - era una valle, tra i fiumi Breggia e Faloppia. Ricavarono questo spiazzo riempiendo una valle lunga 700 metri e fino a sei di altezza. Fu uno sforzo enorme, ma obbligato». Ratti poi cita Isidoro Antognini, sindaco di Chiasso ma anche consigliere di Stato. «Disse che lo sviluppo di Chiasso fu dominato per decenni da una costante sottovalutazione dei suoi bisogni infrastrutturali». Nel 1873, anche nel momento della firma della convenzione, si credeva che la stazione più utilizzata sarebbe comunque stata quella di Luino, non quella di Chiasso, «che poi avrebbe trovato l’ostacolo del Ceneri. Poi, però, il Cantone investì un milione supplementare, oltre ai tre già concessi alla Gotthardbahn, pur di avere la Bellinzona-Lugano-Chiasso. Un altro sforzo importante, certo favorito anche dagli interessi aziendali delle ferrovie, che puntavano verso Chiasso». Lo stesso Isidoro Antognini - e questo lo avevamo letto proprio su un libro di Remigio Ratti (L’asse ferroviario del San Gottardo, Dadò editore) -, disse anche che «la fortuna di Chiasso va ricercata piuttosto nella fatalità degli eventi che non nella volontà degli uomini». Poi Chiasso ci ha messo anche del suo, per crescere, ma soltanto in un secondo tempo.
Una nuova epoca
La famiglia di Ratti abitava al dosso di Balerna. Lui, da bambino, guardava giù, verso Chiasso, e vedeva una palude. Lo stesso campo da calcio del Balerna era circondato da canaletti. «Balerna contro Riva San Vitale. Io ero un piccolo tifoso, allora. Dopo aver urlato un paio di volte contro un terzino ospite, questo mi rifilò una puntinaccia e mi fece volare dall’altra parte del canaletto». L’evoluzione è stata completata sulla spinta dello sviluppo industriale, che ha reso di colpo più interessante anche il traffico ferroviario, che sino a fine Ottocento si limitava a poche materie prime. Si rafforzarono quindi le case di spedizioni. «E la Società di banca svizzera, che fu la prima grande banca svizzera ad aprire una succursale ticinese, scelse proprio Chiasso». Era il 1908. Una nuova epoca, anche se il meglio ancora doveva venire. E sarebbe venuto negli anni Venti, con la creazione del Punto Franco nel 1925 e della fabbrica del ghiaccio. Ma non solo. Lo stesso Ratti scriveva: «Tra il 1919 e il 1932 viene realizzata la completa trasformazione del fabbricato viaggiatori, la costruzione di una nuova stazione merci e doganale detta “scalo” e un notevole ampliamento dei binari». Dai circa 10 km di binari del 1885 si passò a un totale di 57 km, su un’estensione di 380.000 metri quadrati. La stazione internazionale di Chiasso non è più, quindi, solo un’area di transito, ma un punto di trattamento delle merci, di localizzazione di attività di servizi bancari e finanziari, e anche luogo di insediamento industriale.


La crisi
Ma che fine ha fatto questa Chiasso brillante, nuova e ambiziosa? «Già nella seconda metà degli anni Sessanta si potevano intuire le future difficoltà. Ma le cose andavano bene, e nessuno decise di intervenire». Stava però cambiando la cultura del confine. Non più una linea di separazione, bensì uno spazio. «Sull’onda della crisi del petrolio, nel 1975 le ferrovie persero un terzo del loro traffico merci. E qualcuno si rese conto della situazione». Venne costituito un gruppo di lavoro cantonale che produsse la Strafer SA, avente come obiettivo - come scriveva il CdT all’epoca - «la promozione di infrastrutture complementari destinate al trattamento di traffici merci nazionali e internazionali nel Mendrisiotto». Allo studio, l’idea di «interporto» - costo previsto 26 milioni di franchi di allora -, che però dipendeva dalla spinta degli operatori privati. «E il tutto non produsse i frutti sperati. Il gigante, la Danzas, si tirò fuori. Ognuno ragionò per sé». Ma Chiasso perse colpi, tra troppi progetti non realizzati e scarse eccezioni (la Hupac, oggi leader del traffico combinato in Europa).
La filosofia di confine
La Chiasso di oggi è quindi il frutto di questa parabola, generatasi a ridosso del confine e lungo chilometri di ferrovia. I chiassesi di oggi sono figli di questa storia, caratterizzata anche da quella che chiamiamo «l’arte dell’arrangiarsi». «Una filosofia», la descrive Remigio Ratti. «Perché con il confine sai che tutto può cambiare da un momento all’altro». E allora si prova a sopravvivere in qualche modo. La mamma del giovane Remigio, un giorno, chiacchierando con un’altra signora di Balerna, si trovò a raccontare del figlio, con orgoglio. «Sa, il Remigio è diventato assistente all’Università di Friborgo. Guadagnerà 750 franchi al mese». L’altra signora, il cui figlio stava facendo i soldi grazie al contrabbando, le rispose contrita: «Oh, mi dispiace. Ha studiato tanto per così poco?». «Questa era la mentalità di confine, e lo è tuttora». Con Remigio Ratti osserviamo i binari al cosiddetto Gleis 4. Non passa alcun treno. Immalinconiti, accenniamo alle idee in divenire di cui abbiamo letto, all’area artigianale e di svago che qui potrebbe sorgere, o forse no. Ma entrambi sappiamo che quella Chiasso, di cui abbiamo parlato, è ormai lontana. Lui rimette il cappellino, dopo una foto con il sole in faccia, si aggiusta la visiera e mi fa: «Venga, le racconto un’altra storiella».
«Sulla frontiera il cambiamento è dietro l’angolo»
La decisione venne presa, nella Conferenza di Berna, tra il 27 e il 28 settembre 1873. Ma i primi treni, a Chiasso, si videro solo l’anno dopo. Anche per questo motivo, e in attesa che sia pronta la «nuova» stazione, la città festeggerà la ricorrenza solo nel 2024. Una giornata di festa condivisa con le FFS. Il sindaco, Bruno Arrigoni, riconosce: «La Chiasso moderna è nata grazie alla linea del Gottardo e alla stazione internazionale». E oggi? «Oggi c’è un rapporto di amore e odio. Chiasso deve molto alla ferrovia. Si era arrivati ad avere, in zona, oltre duemila posti di lavoro connessi alla stazione. Oggi non arriviamo a 400. Un boom, quello di allora, di cui usufruì tutta l’area. Poi molto è andato perduto. E oggi abbiamo ancora 330.000 metri quadrati di binari, di cui molti non utilizzati. Perché non farne altro?». E qui sta il punto. «Da una parte la ferrovia ha investito più di 200 milioni per rifare il trucco alla stazione, dall’altra però frena su altri progetti». Il riferimento al Gleis 4 è esplicito. Ma il sindaco non si ferma a quello e arriva al capitolo più spinoso, il prolungamento di AlpTransit a sud di Lugano. «A livello federale mi sembra non ci sia la volontà di proseguire. Ed è una decisione difficile da capire, anche perché l’intero progetto si ritrova troncato, e ciò nonostante tutti gli investimenti fatti. Una cesura che non si può comprendere. Ed è chiaro come, per noi, sarebbe stato importante proseguire. Noi lo facciamo presente, ma non abbiamo peso, in questo senso». E lo stesso vale per la fermata dell’Intercity. «Berna ha ribadito che fino al 2035 non si farà. Eppure non ci sembrava di chiedere la luna. Problematiche che, con un peso politico maggiore a livello nazionale, sarebbero risolvibili. Da troppo tempo ormai non abbiamo un consigliere di Stato che porti avanti queste rivendicazioni». E la stazione unica con Como? «Mi hanno fatto capire di lasciar stare, che non interessa. Eppure resto convinto che, con un simile bacino, avrebbe rappresentato una grande opportunità». Bruno Arrigoni non sembra rassegnato, nonostante tutto. Forse unendo le forze, il Basso Mendrisiotto troverà più potere d’impatto. «Ne sono convinto». E comunque, spiega, «guardando a un passato glorioso, ho due possibilità: piangermi addosso o reagire. Il cambiamento subito da Chiasso negli ultimi decenni non dipende da Chiasso, dal suo Municipio, ma dal mercato. Ecco allora che vogliamo cambiare anche noi, attirando - come stiamo facendo - nuove attività economiche, mettendo sul piatto i vantaggi della zona, che derivano anche dalle strutture dei periodi d’oro. Dobbiamo darci da fare, creando continuamente nuove opportunità. Perché, alla fine, chi mi dice che il mercato domani non possa di nuovo cambiare? Sulla frontiera, il cambiamento è dietro l’angolo».
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