Il caso

La Cina contro Calvin Klein e Tommy Hilfiger

Il gruppo PVH, che detiene i due marchi, è accusato di boicottare il cotone prodotto nello Xinjiang
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Red. Online
30.09.2024 09:00

La Cina ha aperto un'indagine contro Calvin Klein e Tommy Hilfiger o, meglio, contro il gruppo che le detiene: la statunitense PVH. L'accusa? Boicottare senza alcuna motivazione fattuale il cotone prodotto nello Xinjiang. Ad annunciare le possibili ritorsioni, come spiega il Corriere della Sera, è stato il ministero del Commercio cinese che sta facendo di tutto per combattere gli sforzi occidentali volti a evitare di comprare prodotti da zone del Paese che sfruttano la manodopera dei vari gruppi etnici prevalentemente musulmani. Ricordiamo infatti che lo Xinjiang è una regione che si trova nel nord-ovest della Cina in cui vivono diverse minoranze etniche tra cui quella degli uiguri.

Per ora, come accennato, le ritorsioni non sono ancora certe perché le autorità cinesi non hanno ancora formulato un'accusa formale; cionondimeno hanno aperto un'indagine nei confronti di PVH. Il gruppo a stelle e strisce avrà ora trenta giorni di tempo per fornire la documentazione a sostegno della propria difesa. Dovrà cioè essere in grado di dimostrare che non sta boicottando il cotone dello Xinjiang. Intanto, il ministero del Commercio del Paese asiatico sta valutando la possibilità di inserire PVH nell’elenco degli «enti inaffidabili». La mossa cinese è considerata una risposta, anche se parziale, alla decisione del presidente USA Joe Biden di limitare l'accesso cinese al mercato americano.

Ma di fronte a queste accuse, come ha reagito PVH? Il gruppo statunitense, che non acquista più cotone proveniente dallo Xinjiang dal 2020, ha fatto sapere di essere in contatto con il ministero del Commercio cinese e di avere l’obiettivo di mantenere «una rigorosa conformità con tutte le leggi e i regolamenti in tutti i Paesi e le regioni» in cui opera.

PVH non è comunque l'unica azienda che ha deciso di tagliare i rapporti con lo Xinjiang. Nel 2021 fu il marchio svedese di abbigliamento H&M a interrompere il proprio approvvigionamento di tessuti dallo Xinjiang. A differenza di PVH per cui le sanzioni sono ancora ipotetiche, H&M si trovò confrontata a ripercussioni reali: i suoi capi vennero rimossi da tutti i siti cinesi di e-commerce. Il bando, fortunatamente, durò però solo sedici mesi.

Bene, ma le aziende che oggi non si riforniscono più nello Xinjiang, dove vanno a prendere la materia prima per produrre i propri capi di abbigliamento? I mercati più gettonati attualmente sono il Vietnam, la Cambogia e il Bangladesh.

Una regione problematica

Nonostante lo Xinjiang sia importante per il settore della moda per via della sua produzione di cotone, la regione è però problematica per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Il Partito comunista vi ha infatti richiuso gli uiguri in quelli che definisce «centri di formazione professionale». Queste strutture sono in realtà luoghi di detenzione e di lavoro forzato creati allo scopo di combattere il terrorismo di matrice islamica.

Per combattere queste pratiche, nel 2021 gli Stati Uniti hanno adottato l'Uyghur Forced Labor Prevention Act. Esso ha introdotto un blocco alle importazioni di prodotti che provengono dalla quelle zone e da società che sono sospettate di essere collegate a dinamiche di sfruttamento.

Gli USA contro Temu e Shein

L'Uyghur Forced Labor Prevention Act non è comunque l'unica misura adottata dagli USA nei confronti della Cina. All'inizio di settembre, infatti, l'amministrazione Biden aveva annunciato che avrebbe preso provvedimenti per limitare l’arrivo degli ordini da siti di e-commerce che vendono abbigliamento a prezzo stracciato come Temu e Shein sul proprio territorio. Sembrerebbe infatti che alcune dei vestiti commercializzati da questi siti siano prodotti con filati tossici.