L'editoriale

La Giustizia ticinese merita molto di più

Le segnalazioni incrociate tra giudici e la credibilità dell'istituzione che sopravviverà alle persone oggi impegnate al fronte
Gianni Righinetti
17.05.2024 06:00

Dal vetusto Palazzo di giustizia di Lugano da tempo giungono spifferi che indicano come pesante e astioso il clima all’interno del Tribunale penale cantonale. E ora è appurato e circonstanziato un fatto che deve allarmare chiunque crede nella Giustizia: le crepe non sono solo presenti nello stabile di via Pretorio, ma sono oltremodo pesanti quelle tra i cinque giudici che vi lavorano e che sono chiamati ad essere, senza se e senza ma, l’espressione giusta e irreprensibile del terzo potere dello Stato, dello Stato di diritto del Canton Ticino. A fine aprile nel rendiconto dell’organismo di controllo, il Consiglio della Magistratura, si leggeva: «Pur lavorando i cinque giudici sostanzialmente in maniera autonoma, è indispensabile che all’interno del Tribunale regni un atteggiamento di collaborazione e rispetto reciproco». Un indizio fin troppo chiaro, non in stretto burocratese giuridico, che è stato il detonatore di una vicenda che, da quanto emerso mediaticamente ad oggi (e mai smentito), mette i brividi. A fronte di una segnalazione inoltrata dai giudici Francesca Verda Chiocchetti e Siro Quadri, ai vertici del Tribunale d’appello, concernente una segretaria che avrebbe praticato mobbing verso una collega. Poi una sorta di controffensiva: la segnalazione al Consiglio della magistratura inoltrata dagli altri tre giudici del Tribunale penale cantonale, a firma del presidente Mauro Ermani, del vicepresidente Marco Villa e di Amos Pagnamenta, che hanno puntato l’indice verso Verda Chiocchetti e Quadri. Compresa una segnalazione a carico di Ermani, anche questa al CdM, inoltrata dalla Sezione cantonale delle risorse umane. Il caso che scotta è stato poi sostanziato anche dal deputato PLR (e avvocato) Matteo Quadranti, bene informato e certamente non incendiario di indole. Quadranti che ha portato alla luce «situazioni di mobbing di lunga durata (tra segretarie, tra segretarie e giudici, tra segretarie e giudici e/o cancellieri e viceversa), se non molestie sessuali, quantomeno apprezzamenti inopportuni, commistioni, vendette, ricattini e raccomandazioni». Una descrizione da brividi se messa in relazione con qualsivoglia realtà lavorativa, che diventa allucinante se trasposta al Palazzo della giustizia e messa in atto da uomini e donne che rappresentano il potere che tutti vogliamo (o immaginiamo) integerrimo e irreprensibile nella sostanza delle decisioni, ma anche nella forma e nell’ambiente in cui si definiscono, nel quale assumono quella credibilità che noi tutti pretendiamo. Senza se e senza ma. Nelle orecchie di tutti noi risuonano ancora le scuse a nome dello Stato pronunciate dal giudice Villa quando emersero le violenze e i subdoli comportamenti nei confronti di giovani da parte del tristemente noto «ex funzionario del DSS», una vicenda sottovalutata da molti, favorita da persone che avevano girato la faccia e chiuso gli occhi, lasciando che il viscido potesse proseguire indisturbato. Si è detto tanto, si è scritto molto. Ci è stato propinato un «mai più» per situazioni che oggi, certamente in forme diverse, ma sempre all’interno dello Stato (e per giunta della Giustizia), sostanzialmente ritroviamo. È doveroso che in tempi rapidi venga fatta chiarezza e nei confronti di chi si è reso protagonista di azioni inaccettabili, vengano prese decisioni rapide e drastiche. La Giustizia deve essere oltremodo giusta con chi è chiamato a rappresentarla. Va da sé che fino alla prova del contrario vale la presunzione di innocenza per tutti, uomini e donne. Ma da cittadini non possiamo tollerare che nel frattempo, chi si è fatto la guerra con segnalazioni incrociate dal sapore vendicativo e giustizialista, perda tempo, forze e, peggio ancora, si faccia magari condizionare nel suo ruolo giudicante da perverse dinamiche interne. E non vengano a raccontarci che «nonostante tutto il lavoro prosegue». Siamo tutti sufficientemente adulti per sapere che se sul posto di lavoro ci sono situazioni come quelle descritte, il dovere professionale passa in secondo piano e si manifestano altre dinamiche auto-assolutrici, difensive, incentrate a mettere in cattiva luce rivali e avversari e a procacciarsi alleati.

La credibilità della Giustizia ha subìto un durissimo colpo, non è il primo, ma questo è oltremodo preoccupante. E fa seguito a poco onorevoli vicende per le nomine da parte del Gran Consiglio che abbiamo visto nel corso degli anni, mentre ad ogni piè sospinto tutti ripetono come automi la favoletta che «il sistema delle nomine va rivisto» e che «così non si può andare avanti».

Forse è ora di rendersi conto che la Giustizia è un’istituzione e che gli uomini e le donne che operano all’interno sono deputati a farla funzionare, ma che la Giustizia non è «cosa loro». Fortunatamente sopravviverà anche quando le persone avranno lasciato per scelta, per raggiunti limiti d’età o perché allontanate da chi ha la facoltà di prendere queste decisioni. La Giustizia ticinese merita molto di più di quello che oggi abbiamo sotto i nostri, ancora increduli, occhi vigili.