Testimonianze

La «postina di guerra» dei rifugiati italiani

La storia di Emilia Banchini, che negli anni Quaranta faceva da intermediaria tra i fuggiaschi e i loro famigliari rimasti oltre confine
Emilia Banchini nel giorno del suo matrimonio nel 1940. (foto CdT)
Michele Montanari
25.01.2019 06:00

Fogli di carta che rievocano frammenti di vita. Emozioni. Speranze. Tra le mani abbiamo lettere ingiallite dal tempo, ma custodite con estrema cura. Sono le missive che gli italiani fuggiti in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale inviarono alla signora Emilia Banchini, tra il ’42 e il ’45, per esprimere affetto e riconoscenza. È grazie a lei infatti che molti di quei rifugiati riuscirono a comunicare con i propri cari rimasti oltre confine. «Mia madre negli anni Quaranta si dedicava a un’attività illegale. Si era messa a disposizione come intermediaria tra chi era riuscito a scappare in Svizzera e i loro famigliari rimasti in Italia». Ce lo racconta suo figlio Gabriele Banchini, che ai tempi era solo un bambino. L’architetto, oggi in pensione, ci attende nel giardino di casa, a Ponte Capriasca. Quando arriviamo non dobbiamo neanche suonare il campanello. Ci viene incontro quasi con urgenza. Vuole condividere con noi una storia che vale la pena riportare proprio nella settimana del Giorno della memoria. «Sono tornato in possesso delle lettere di mia mamma solo quest’anno, dopo che è morta mia sorella. L’articolo ‘‘Vi racconto le donne di Arzo che non voltarono la faccia’’ mi ha spinto a fare ordine e a contattarvi».

Gabriele Banchini nel suo studio a Ponte Capriasca. (foto Gabriele Putzu)
Gabriele Banchini nel suo studio a Ponte Capriasca. (foto Gabriele Putzu)

Gabriele ci accompagna in uno studiolo che potrebbe tranquillamente essere un museo di famiglia. Non sta fermo un attimo. Parla. Gesticola. È pieno di entusiasmo mentre ci porta alla scoperta del suo tesoro di ricordi. Sulle pareti sono appese le incisioni realizzate a puntasecca e acquaforte da sua madre. Dei piccoli gioielli omaggiati nel libro «Emilia Banchini», curato proprio da suo figlio. Ogni passo in quel locale è un tuffo nel passato, tra disegni, foto in bianco e nero, e pagine che odorano di tempo trascorso. Non c’è un solo granello di polvere, tutto è conservato alla perfezione. «Mia mamma si è sposata nel 1940 – racconta Gabriele –, io sono nato due anni dopo. Non so bene come facesse a far avere le lettere ai perenti dei fuggiaschi. Ero troppo piccolo, e col passare del tempo mi ha accennato della sua attività solo un paio di volte». Il materiale a nostra disposizione però è eloquente: una ventina di lettere spedite da diverse zone della Svizzera. Tutte scritte dai rifugiati per esprimere gratitudine alla signora Banchini, che viveva a Pregassona. Gabriele ci mostra un’agenda. La sfogliamo con religioso rispetto, con il timore di sciupare quelle pagine sopravvissute agli anni. Ci sono i nomi e gli indirizzi degli italiani fuggiti dal nazifascismo, poi riusciti a mettersi in contatto con Emilia. C’è Angelo, che stava a Basilea. Pietro, Enrico e Beppe, in esilio a Mürren (BE). Qualcuno si nascondeva a Neuchâtel, a Losanna, in Vallese o nel canton Argovia. Molti altri a Berna. E poi il dottor Mario Donati, che insegnava chirurgia all’Università di Ginevra (vedi in fondo all’articolo). Sono circa una quarantina le persone finite in quella lista. La signora Emilia non portava solo notizie da una parte all’altra della frontiera. Come emerge da alcune lettere, la donna cercava di rispondere alle svariate richieste dei rifugiati, come, per esempio, procurare loro il libro di grammatica francese o portare in Italia il caffè solubile «Nescafè». «Non so che stratagemma usasse mia madre, magari semplicemente nascondeva le cose da consegnare sotto gli abiti. So per certo che le autorità svizzere più volte le dissero che stava facendo qualcosa di illegale e che avrebbe rischiato delle sanzioni», spiega Gabriele, aggiungendo che la donna passava spesso il confine per andare a trovare i suoi genitori a Varese. Di madre svizzera e padre italiano, è proprio lì che è cresciuta Emilia, prima di trasferitasi in Ticino per sposarsi con Simone Banchini. Secondo l’architetto furono probabilmente le sue origini a spingerla a fare la «postina di guerra»: tra i rifugiati infatti c’era anche suo fratello, scappato in Svizzera poco più che ventenne quando scoppiò il conflitto. «Io non ricordo quasi nulla di quel periodo. Avevo due, tre anni. L’unica cosa che mi è rimasta impressa è legata alla casa di Pregassona. Mio padre mi portò sul balcone e indicando il cielo rosso in lontananza mi disse: ‘‘Guarda, quelli sono i bombardamenti su Milano’’», rammenta l’architetto. «Mia madre è morta nel 2003, non riesco davvero a capire perché non mi abbia mai parlato della sua attività. Ho pensato di far interpretare le sue incisioni da uno psichiatra, per comprenderne il significato. Ma alla fine ho lasciato perdere». Forse una traccia di quegli anni turbolenti è davvero immortalata nelle opere di Emilia. Il bisogno di tenersi tutto dentro potrebbe essere rappresentato dalle porte e dalle finestre chiuse che tornano più volte nelle sue incisioni. Vie di accesso completamente sigillate. Come a voler proteggere per sempre i rischiosi segreti che, ai tempi, potevano significare come minimo guai seri con la giustizia, ma che oggi testimoniano bellissimi atti di altruismo.

Una finestra e una porta, entrambe chiuse, tratte dalle opere di Emilia Banchini. (foto CdT)
Una finestra e una porta, entrambe chiuse, tratte dalle opere di Emilia Banchini. (foto CdT)

Stralci di lettere

Come una seconda mamma per i rifugiati

«Tra poche ore sarò finalmente in Italia! Ripensando in questo momento febbricitante ai 22 mesi di esilio ormai passati tra i ricordi, non posso fare a meno di apprezzare ancora una volta tutto quello che lei ha fatto per me. Nono ho parole sufficienti per esprimerle tutta la mia riconoscenza, che è grande. Mi permetta signora di abbracciarla come una seconda mamma!

La ringrazio ancora infinitamente con la speranza di aver ben presto l’occasione di ricambiarla».

Neuchâtel, 05/07/1945

La grammatica francese in prestito

«Ho ricevuto ieri il suo espresso e non le so dire tutta la mia gioia nel trovarvi notizie tanto care ed attese. Ora sono più tranquillo(...). Ho ricevuto la grammatica francese(...). Vorrà comunque ringra

ziare suo marito per il gentile prestito (... ). Sembra che ci sarà la possibilità di frequentare l’università, ciò mi gioverebbe molto(...). Poter utilizzare questo forzato riposo in qualcosa di proficuo sarebbe un gran bene(...) servirebbe ad elevare il morale che le notizie specie di questi giorni rendono vieppiù depresso. La pausa va per le lunghe e non si vede affatto una soluzione vicina. L’esilio potrà durare un anno e forse più (...) Ma oggi è un gran giorno per me. Ho i miei cari vicini. Il mio pensiero va riconoscente a lei(...), che mi ha dato tale possibilità».

Mürren, 19/11/1943

«Prima di rientrare in Italia desidero ancora esprimere la mia riconoscenza per le gentili sue attenzioni(...). Le restituisco la grammatica francese che mi è stata veramente utile».

Losanna, 29/06/1945

Il caffè solubile oltre confine

«Le mando una scatola di Nescafè che a me è impossibile portare in Italia domani. Colgo l’occasione per esprimere i miei sentimenti di gratitudine per tutte le gentilezze che lei mi ha usato durante la mia permanenza in Svizzera e per chiederle scusa se, più di una volta, ho abusato della sua cortesia e della sua bontà». Mürren, 04/06/1945

Alcuni favori al noto chirurgo Mario Donati

«Le mando una lettera che dovrebbe essere consegnata possibilmente a mano, alla signora(...) all’ospedale S. Anna a Como. La lettera nell’interno non ha né indirizzo né firma e non c’è nulla di compromettente».

Lugano, 01/-/1943

«Sono stato per mesi a Ginevra per l’insegnamento di chirurgia(...) agli studenti italiani ivi mandati e non ho più voluto disturbarla. Ora sono venuto a passare la vecanze pasquali con gli amici Pedotti, mi permetto di inviarle una lettera per Varese, qualora ella non potesse più mandarla, me la restituisca per favore, ma spero che ella abbia potuto mantenere le comunicazioni con l’Italia».

Lugano, 01/04/1944

Un prolungato soggiorno

«Nel momento in cui sto per riprendere la vita del lavoro che laggiù spero mi attenda(...), la prego gradire il mio ringraziamento per aver contribuito con la loro assistenza(...) a rendermi leggero il mio soggiorno prolungatosi oltre quanto si poteva prevedere».

Aarwangen, 17/07/1945

Ci incontreremo di persona, in Italia

«Prima di lasciare l’ospitale Svizzera è mio dovere esprimerle ancora una volta il senso del mio ringraziamento per le cortesie usatemi. Fiducioso di poterla ringraziare personalmente fra non molto in quel di Varese».

Luogo sconosciuto, 06/07/1945

Dica ai miei cari che sono guarito e sto bene

«Mi è giunta graditissima ed inaspettabile la sua lettera del 23 maggio. Desideravo venire direttamente da lei, e per questo motivo ho così lungamente differito la risposta benché il risponderle mi sia molto caro; sono venuto a Lugano un paio di volte col minuto contato, così non sono potuto arrivare fino a lei. La buona signorina(...) si ricorda di me in questo episodio interessante della mia vita, e gliene sono profondamente riconoscente. È l’unica voce che mi venga dall’Italia, perché finora in oltre quattro mesi, non sono riuscito a ricevere comunicazioni non soltanto dai miei cari(...), ma nemmeno dagli amici più cari che erano a Varese. Se lei riuscisse ad ottenere una comunicazione credo che compirebbe l’opera più cara a me, ma attualmente ritengo sia difficile anche per lei(...). Se lei tentasse, faccia sì che i miei vecchi clienti e cari amici(...) sappiano che, dopo esser stato operato, sono guarito e sto bene(...). Sono abituato dalla guerra ad essere lieto del poco che posso avere, e benché attualmente abbia pochissimo sono lieto di quel pochissimo, perché posso fare il medico(...). Spero di poter presto venire ad ossequiarla, se questo non le porterà disturbo».

Loverciano, 12/06/1944

Ultima lettera prima di passare la frontiera

«Carissima signora siamo alla frontiera: domattina partiremo per l’Italia. Grazie di cuore per tutto quanto fatto per noi (...). Andrò subito a Varese a visitare i miei parenti e porterò i suoi cari saluti ai suoi genitori (...) Siamo pronti a ricominciare la nostra vita».

Briga, 11/07/1945

Il chirurgo fuggito dal fascismo

Tra i corrispondenti di Emilia Banchini c’era anche Mario Donati, considerato il più prestigioso chirurgo italiano nel periodo a cavallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Nato a Modena nel 1879, la sua famiglia faceva parte della Comunità Ebraica della città dell’Emilia-Romagna, sin dal 1606. Dopo gli studi di medicina e chirurgia, Donati insegnò in diversi atenei Italiani, ottenendo cattedre nelle università di Cagliari, Modena, Padova, Torino e Milano. Secondo l’enciclopedia Treccani, «affrontò con spirito pionieristico svariati campi della chirurgia, da quella addominale sino alla neurochirurgia», e furono oltre duecento le sue pubblicazioni scientifiche. Nel 1938 a causa delle leggi razziali fasciste, venne allontanato dalla clinica del capoluogo lombardo, ma riuscì a portare avanti la sua attività da libero professionista. Nel 1943 per evitare le deportazioni nazifasciste ai danni degli ebrei, si rifugiò in Ticino, dove fu ospite del suo amico e collega Fausto Pedotti, l’allora primario dell’Ospedale Civico di Lugano. Nel 1944 venne chiamato a Ginevra, dove le autorità cittadine e accademiche lo accolsero con molto onore, offrendogli l’incarico di insegnare presso il campo universitario di internamento militare - istituito dalla stessa Università di Ginevra - per i numerosi rifugiati italiani. Donati alla fine della guerra, nel maggio del 1945, tornò in patria, dove prese il posto di direttore della clinica chirurgica dell’ospedale Policlinico di Milano. Morì improvvisamente nel gennaio del 1946, mentre stava rientrando a casa dal lavoro

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