Lugano

L’altro processo ai preti che delinquono

Dopo la condanna del parroco di Cadro cerchiamo di capire come funziona il sistema penale della Chiesa – I provvedimenti vanno dalla riduzione allo stato laicale alle penitenze – Ci sono gli avvocati e si può fare ricorso
Giuliano Gasperi
11.03.2022 06:00

Un prete che ha commesso un reato come il parroco di Cadro don Samuele Tamagni – condannato mercoledì alle Criminali per una serie di malversazioni – può trovarsi ad affrontare un processo in più oltre a quello celebrato dalla giustizia civile. Se state pensando a un dibattimento interiore con il giudice di tutti i giudici non sbagliate, in qualche modo avviene anche quello, ma non è il tema del nostro approfondimento. Oggi ci soffermiamo sul processo ecclesiastico: un momento in cui il sacerdote incriminato rende conto delle sue azioni alla Chiesa.

Se ne parla pochissimo, ma è interessante notare come la procedura ricalchi quella messa in atto dalle autorità giudiziarie dello Stato. Ci sono le indagini, l’interrogatorio, gli avvocati difensori, un codice dei delitti e delle loro pene, con attenuanti, aggravanti, prescrizione e sospensione condizionale, e ovviamente con la possibilità di ricorrere contro una condanna. Esistono però anche importanti differenze.

Il fine ultimo
Una particolarità del processo ecclesiastico è lo scopo generale della pena, articolato in tre obiettivi: «La reintegrazione della giustizia, la correzione del reo e la riparazione dello scandalo» come leggiamo ne Il nuovo sistema penale della Chiesa di Bruno Fabio Pighin, professore di diritto canonico e teologia morale. Con scandalo non s’intente la risonanza mediatica dei fatti, bensì il rischio d’indurre altre persone a commettere lo stesso reato. Pighin, nella sua analisi, parla comunque di «ferita provocata alla Chiesa», che va ad aggiungersi a una «lacerazione intrinseca» e alla «rottura del rapporto con Dio» da parte del religioso, «che non può più capire a fondo se stesso come creatura, né realizzarsi come figlio del Signore».

Sono parole che sanno di sentenza definitiva, ma la giustizia ecclesiastica condivide un obiettivo con quella civile: il tentativo di recuperare a livello personale il reo e di reinserirlo nella comunità.

Sui casi gravi decide Roma
Ma a quali pene può andare incontro un sacerdote? Una delle più pesanti è la riduzione allo stato laicale, che viene decisa «per i delitti di estrema gravità», come ad esempio la pedofilia, e quando è ritenuto «fallito ogni tentativo di recupero morale e sociale». L’ultima parola, in questi casi, spetta alla Chiesa di Roma.

Meno estreme, ma non lievi, sono le ingiunzioni, come l’obbligo di andare a vivere in determinati luoghi come monasteri, case del clero, canoniche: posti nei quali i religiosi, lontani dal contesto che li ha portati a sbagliare, possano ritrovare loro stessi e la loro fede. Tale provvedimento, come osserva Pighin, può essere paragonato alla detenzione, o meglio agli arresti domiciliari, senza però il divieto di lasciare i luoghi stabiliti.

Sono previste anche le multe, «che possono avere un’efficacia notevole sui rei particolarmente sensibili ai beni materiali» e rappresentare, nel caso di reati patrimoniali, «un ristoro per la comunità ecclesiale afflitta e spesso depauperata».

Due pene che non hanno un corrispettivo vero e proprio nella giustizia civile sono invece le proibizioni, come quelle di risiedere in un certo il luogo o d’indossare l’abito religioso, e le privazioni, come quelle che tolgono titoli o incarichi. Abbassando ancora il livello di gravità incontriamo i rimedi penali e le penitenze. Tra queste troviamo il far compiere all’imputato determinate opere religiose, di pietà o carità per riparare al danno fatto. Non si tratta di vere e proprie pene. In certi casi possono sostituirle,per esempio se il reo «è stato sufficientemente punito dalle autorità civili».

Delitti particolari
Di norma la giustizia ecclesiastica si attiva dopo il processo civile, ma ci sono azioni che vengono considerate illecite solo dalla Chiesa, che quindi le punisce indipendentemente da ciò che fa lo Stato. La lista comprende i delitti contro la fede e l’unità della Chiesa, le autorità ecclesiastiche e l’esercizio degli incarichi, contro i sacramenti, la buona fama e gli obblighi speciali, nonché il delitto di falso. Poi ci sono i delitti contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo, che hanno dei corrispettivi civili e vanno dall’omicidio alla pornografia minorile, passando per le mutilazioni e l’aborto procurato.

Come in aula penale
Una volta avviata, la «macchina» della giustizia ecclesiastica segue un iter molto simile a quella dello Stato. Si parte, a meno che i fatti siano già chiari a tutti, dalla cosiddetta notitia criminis, che non è ancora un’accusa ma un elemento che fa pensare a un possibile reato. Per ricostruire gli eventi, l’autorità canonica competente svolge una «indagine previa» al termine della quale valuta se si può e se è necessario celebrare un processo. Se si arriva a questo stadio, il dibattimento prevede una serie di domande all’imputato, l’intervento di chi lo difende – c’è l’avvocato d’ufficio, se l’accusato non ne ha uno – e di chi promuove l’accusa, oltre a eventuali testimoni. Alla fine arriva la sentenza e il caso si chiude, a meno che l’accusato faccia ricorso a un’autorità superiore.