L’altro processo ai preti che delinquono
Un prete che ha commesso un reato come il parroco di Cadro don Samuele Tamagni – condannato mercoledì alle Criminali per una serie di malversazioni – può trovarsi ad affrontare un processo in più oltre a quello celebrato dalla giustizia civile. Se state pensando a un dibattimento interiore con il giudice di tutti i giudici non sbagliate, in qualche modo avviene anche quello, ma non è il tema del nostro approfondimento. Oggi ci soffermiamo sul processo ecclesiastico: un momento in cui il sacerdote incriminato rende conto delle sue azioni alla Chiesa.
Se ne parla pochissimo, ma è interessante notare come la procedura ricalchi quella messa in atto dalle autorità giudiziarie dello Stato. Ci sono le indagini, l’interrogatorio, gli avvocati difensori, un codice dei delitti e delle loro pene, con attenuanti, aggravanti, prescrizione e sospensione condizionale, e ovviamente con la possibilità di ricorrere contro una condanna. Esistono però anche importanti differenze.
Il
fine ultimo
Una
particolarità del processo ecclesiastico è lo scopo generale della pena,
articolato in tre obiettivi: «La reintegrazione della giustizia, la correzione
del reo e la riparazione dello scandalo» come leggiamo ne Il nuovo sistema
penale della Chiesa di Bruno Fabio Pighin, professore di diritto canonico e
teologia morale. Con scandalo non s’intente la risonanza mediatica dei fatti,
bensì il rischio d’indurre altre persone a commettere lo stesso reato. Pighin,
nella sua analisi, parla comunque di «ferita provocata alla Chiesa», che va ad
aggiungersi a una «lacerazione intrinseca» e alla «rottura del rapporto con
Dio» da parte del religioso, «che non può più capire a fondo se stesso come
creatura, né realizzarsi come figlio del Signore».
Sono parole che sanno di sentenza definitiva, ma la giustizia ecclesiastica condivide un obiettivo con quella civile: il tentativo di recuperare a livello personale il reo e di reinserirlo nella comunità.
Sui
casi gravi decide Roma
Ma
a quali pene può andare incontro un sacerdote? Una delle più pesanti è la
riduzione allo stato laicale, che viene decisa «per i delitti di estrema
gravità», come ad esempio la pedofilia, e quando è ritenuto «fallito ogni
tentativo di recupero morale e sociale». L’ultima parola, in questi casi,
spetta alla Chiesa di Roma.
Meno estreme, ma non lievi, sono le ingiunzioni, come l’obbligo di andare a vivere in determinati luoghi come monasteri, case del clero, canoniche: posti nei quali i religiosi, lontani dal contesto che li ha portati a sbagliare, possano ritrovare loro stessi e la loro fede. Tale provvedimento, come osserva Pighin, può essere paragonato alla detenzione, o meglio agli arresti domiciliari, senza però il divieto di lasciare i luoghi stabiliti.
Sono previste anche le multe, «che possono avere un’efficacia notevole sui rei particolarmente sensibili ai beni materiali» e rappresentare, nel caso di reati patrimoniali, «un ristoro per la comunità ecclesiale afflitta e spesso depauperata».
Due pene che non hanno un corrispettivo vero e proprio nella giustizia civile sono invece le proibizioni, come quelle di risiedere in un certo il luogo o d’indossare l’abito religioso, e le privazioni, come quelle che tolgono titoli o incarichi. Abbassando ancora il livello di gravità incontriamo i rimedi penali e le penitenze. Tra queste troviamo il far compiere all’imputato determinate opere religiose, di pietà o carità per riparare al danno fatto. Non si tratta di vere e proprie pene. In certi casi possono sostituirle,per esempio se il reo «è stato sufficientemente punito dalle autorità civili».
Delitti
particolari
Di
norma la giustizia ecclesiastica si attiva dopo il processo civile, ma ci sono
azioni che vengono considerate illecite solo dalla Chiesa, che quindi le punisce
indipendentemente da ciò che fa lo Stato. La lista comprende i delitti contro
la fede e l’unità della Chiesa, le autorità ecclesiastiche e l’esercizio degli
incarichi, contro i sacramenti, la buona fama e gli obblighi speciali, nonché
il delitto di falso. Poi ci sono i delitti contro la vita, la dignità e la
libertà dell’uomo, che hanno dei corrispettivi civili e vanno dall’omicidio
alla pornografia minorile, passando per le mutilazioni e l’aborto procurato.
Come
in aula penale
Una volta avviata, la «macchina» della giustizia
ecclesiastica segue un iter molto simile a quella dello Stato. Si parte, a meno
che i fatti siano già chiari a tutti, dalla cosiddetta notitia criminis,
che non è ancora un’accusa ma un elemento che fa pensare a un possibile reato.
Per ricostruire gli eventi, l’autorità canonica competente svolge una «indagine
previa» al termine della quale valuta se si può e se è necessario celebrare un
processo. Se si arriva a questo stadio, il dibattimento prevede una serie di
domande all’imputato, l’intervento di chi lo difende – c’è l’avvocato
d’ufficio, se l’accusato non ne ha uno – e di chi promuove l’accusa, oltre a
eventuali testimoni. Alla fine arriva la sentenza e il caso si chiude, a meno
che l’accusato faccia ricorso a un’autorità superiore.