Giudiziaria

L’articolo sulle lobby gay nella Chiesa non era discriminatorio

Il professore della Facoltà di teologia Manfred Hauke, editore della rivista su cui era stato pubblicato, è stato prosciolto dall’accusa di incitamento all’odio a causa dell’orientamento sessuale
© CdT / Gabriele Putzu
Federico Storni
22.04.2024 15:26

Toni a tratti duri, addirittura estremi, in quell’articolo. E forse il professor Hauke avrebbe potuto mostrare rincrescimento verso le persone che, a torto o a ragione si sono sentite discriminate. Ma, penalmente, non c’è niente da vedere. Quello in esame era un articolo scientifico rivolto a un ristretto gruppo di specialisti e, piacciano o meno i toni, non descriveva con termini dispregiativi gli omosessuali tutti o l’omosessualità in se. Dal testo non emerge nessuna ideologia discriminatoria e pertanto l’imputato va assolto dall’accusa, appunto, di discriminazione o incitamento all’odio a causa dell’orientamento sessuale e, benché non avesse avanzato alcuna pretesa di torto morale, gli vanno riconosciuti ventimila franchi d’indennizzo per le spese giudiziarie sostenute. Tanto ha sentenziato oggi la giudice della Pretura penale Petra Vanoni.

Acque giuridiche inesplorate

Si è dunque chiuso con un proscioglimento il complicato e seguito processo a carico del professore della Facoltà di teologia Manfred Hauke, editore della rivista tedesca «Theologisches» su cui nel 2021 in due puntate era apparso il controverso articolo, a firma di un altro studioso, il sacerdote polacco Dariusz Oko. Nell’articolo si leggevano frasi quali «flagello omosessuale» e «il tumore della mafia gay che consuma la Chiesa». Frasi ritenute discriminatorie dall’organizzazione mantello per gli uomini gay e bisessuali in Svizzera Pink Cross, che ha sporto denuncia. Il dibattimento si era tenuto due settimane fa (vedi l’edizione del 9 aprile).

La stessa giudice Vanoni, in un ampio preambolo, ha rimarcato come non si sia trattata di una fattispecie semplice, tant’è che ha definito il suo compito «arduo» per almeno tre motivi. Il primo: il forte impatto mediatico del caso (la sentenza è stata ripresa oltralpe e dalle agenzie di stampa, e un processo «gemello» in Germania è pure stato molto raccontato) e l’importanza della posta in gioco - «Gli alti ideali per cui si combatte», con le parole di Vanoni – che ha visto contrapposti il diritto a non essere discriminati a quello della libertà d’espressione. Il secondo: la «giovinezza del reato», introdotto nel 2021 tramite votazione popolare e ancora pressoché privo di letteratura giuridica e giurisprudenza, cosa che ha portato la Corte a navigare in acque giuridiche quasi inesplorate. Il terzo: «La necessità di ristabilire un equilibrio fra le parti». Qui il riferimento è all’assenza dell’accusa in aula al momento del dibattimento, mentre c’era eccome l’avvocato difensore di Hauke, Luigi Mattei, che ha esposto un’approfondita arringa e ha pure lamentato l’assenza di una controparte. È prassi per il Ministero pubblico non presentarsi ai processi pretorili per una generale e oggettiva mancanza di tempo per farlo, ma in questo caso secondo la giudice Vanoni «l’accusa potrebbe aver sottovalutato l’impatto» della sua assenza. «Non è una critica», ha aggiunto. Assente al dibattimento anche Pink Cross, ma solo perché il reato non prevede che potesse costituirsi parte lesa.

Il possibile sforzo in più

Tornando al merito, la Corte ha quindi concluso che i termini, pur forti, erano nel contesto dell’articolo chiaramente definiti e non usati per offendere la comunità omosessuale tutta e indiscriminatamente. Non era però nemmeno scontato che si arrivasse a questo punto, in quanto la difesa aveva sollevato un paio di potenziali ostacoli pregiudiziali. Due in particolare: poteva Hauke in qualità di editore essere punito per lo scritto di un altro e l’atto d’accusa della procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis era abbastanza chiaro? La Corte ha ritenuto di sì in entrambi i casi perché Oko non era raggiungibile e perché l’atto d’accusa «rispettava i criteri minimi, anche se l’accusa avrebbe potuto fare uno sforzo in più».

Ora «indaga» l’USI

In tutto questo, poco dopo la sentenza, l’USI e la Facoltà di teologia, in un comunicato congiunto, confermano che nonostante l’assoluzione penale, una Commissione etica ad hoc valuterà se i medesimi fatti «abbiano comunque violato i principi fondanti l’università». Nella nota si legge anche che nel frattempo il professor Hauke ha richiesto una sospensione dall’attività di docenza.

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