Il film

«Last Dance»: La famiglia «scippa» la vecchiaia agli anziani

Il lungometraggio proiettato in Piazza Grande, lunedì in seconda serata, segue la vicenda di un vedovo 75.enne. Gli esperti: «Oggi si rimane in forma più tempo»
La locandina del film «Last Dance»; a sinistra, la psichiatra Vincenza Spera e, a destra, Graziano Ruggieri, geriatra
Jona Mantovan
10.08.2022 06:00

Troppa protezione, medicalizzazione ad ogni costo, pressante sorveglianza sanitaria, al limite del ‘poliziesco’… i familiari di Germain, il 75.enne rimasto vedovo nel film «Last Dance» di Delphine Lehericey (proiettato in seconda serata in Piazza Grande l’8 agosto al Locarno Film Festival), fanno sorridere Graziano Ruggieri, geriatra dalla lunga carriera: oggi 62.enne, infatti, ha iniziato come infermiere in psichiatria a diciotto. Ora è primario e direttore sanitario, oltre che medico internista e geriatra, alla Clinica Hildebrand Centro di riabilitazione a Brissago. Accessoriamente, da circa un anno, ha il titolo di professore aggiunto in riabilitazione nelle condizioni di cronicità alla SUPSI. «Credo fortemente nella riabilitazione degli anziani», esclama. Quelle nel film sono tutte situazioni già viste nella realtà. E che hanno pure fatto suonare qualche campanello d’allarme nel sistema sanitario, il quale si prepara a progettare gli ospedali del futuro: un meccanismo di difesa che scatta nella testa dei familiari vicini all’anziano finisce fuori controllo, risultando dannoso. Diventando una sorta di «sequestro» di chi ha una certa età, ma è ancora in forma. «Come se l’entourage volesse in qualche modo ‘tutelare’ questo tempo».

Anche Vincenza Spera, psichiatra nel reparto di gerontopsichiatria, nonché medico capoclinica alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio, ritiene attuale i temi affrontati nella pellicola: «Il tema del lutto, di come affrontarlo... certo, la nostra esperienza clinica è un po' differente rispetto a quanto mostrato nel lungometraggio. Capita di rado di vedere delle forme così creative di elaborazione del lutto. In realtà, quello che osserviamo maggiormente, sono reazioni depressive, o anche un'alternanza di sentimenti: rabbia, senso di colpa, tristezza...».

In questa fase della vita ti può capitare di tutto. Anche cose pesanti, come la perdita del coniuge. Ma si possono sempre trovare dei momenti di creatività e di vitalità
Graziano Ruggieri, geriatra

La tutela diventa ghettizzazione

Per tornare alla tutela al centro della pellicola, Ruggieri sottolinea come questa si trasformi man mano, «in una ghettizzazione, facendo diventare l'anziano in questione pure più disabile di quel che è nella realtà. Perché questi è sì anziano, ma ancora molto vitale, molto creativo».
Il messaggio del film, secondo Ruggieri, è chiaro: «In questa fase della vita ti può capitare di tutto. Anche cose pesanti, come la perdita del coniuge appunto. Ma si possono sempre trovare dei momenti di creatività e di vitalità. Momenti che danno una ‘lezione’ a chi, intorno a te, è convinto del contrario e sostiene ‘Devi stare a riposo, dobbiamo controllarti, farti prendere i farmaci…’. La vita non deve essere medicalizzata. E, anche se sei anziano, la vita ti chiede di andarle incontro. Con tutte le tue risorse, con quello che puoi».

La nostra esperienza clinica è un po' differente rispetto a quanto mostrato nel lungometraggio. Capita di rado di vedere delle forme così creative di elaborazione del lutto
Vincenza Spera, psichiatra (reparto di gerontopsichiatria)

Un modello già saltato

La sfida per il futuro, secondo Ruggieri, sta proprio nel ‘neutralizzare’ un tipo di vecchiaia riduttiva e stereotipata. «Occorre trovare un equilibrio tra il non essere troppo tutelanti di questo periodo della vita. Permettere alle persone di commettere qualche errore, oltre a far sì che possano esplorare la vita oltre alle possibilità offerte dal divano, dall’infermiere che passa tutti i giorni e dalla passeggiata con il cane. Ma credo che questo modello sia già saltato, almeno per questa generazione di persone rappresentate dal protagonista del film: anziani in salute, molto vitali, che si ribellano e seguono la filosofia del ‘lasciatemi in pace, vado incontro alla mia vita’ e a buona ragione».

Le strutture di domani saranno come i ‘pit stop’ della Formula Uno: si arriva, si fanno quelle poche cose che servono nel minor tempo possibile e poi si rientra da dove si è partiti
Graziano Ruggieri, geriatra

Gli ospedali del futuro? ‘Pit stop’ di Formula Uno

A fronte di questo scenario, gli ospedali così come li conosciamo oggi dovranno cambiare. «Sì, perché non rappresentano più la risposta corretta alle esigenze degli anziani. Penso soprattutto ai cosiddetti ‘grandi anziani’, quelli più delicati, ultraottantenni e con problemi di salute. Gli ospedali, come li concepiamo oggi, rischiano di provocare delle patologie dove c’è già una fragilità». Questa evoluzione non è un processo a breve termine.
«Ma le strutture di domani, credo nel giro di massimo trent’anni, saranno luoghi che assomiglieranno ai ‘pit stop’ della Formula Uno. Si arriva, si fanno quelle poche cose che servono nel minor tempo possibile e poi si rientra da dove si è partiti». Le cure domiciliari, secondo Ruggieri, saranno sempre più importanti.

«Il progresso della scienza deve andare di pari passo con la società», conclude l’esperto. «Vedo ancora un certo scollamento. La famiglia deve essere pronta ad assumersi delle responsabilità sugli anziani che riceve ‘trattati’ dalla medicina. Ma non come arbitro sanzionante, sotto forma di sostegno per questa fase della vita».

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