Guerra

Le bombe atomiche più vicine al Ticino

Sono armi statunitensi e si trovano all’aeroporto militare di Ghedi, in provincia di Brescia: da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina la base del Comune lombardo è in preallerta
Michele Montanari
15.03.2022 10:58

Circa 150 chilometri, meno di due ore in auto. È il tragitto che separa il Ticino dalle armi nucleari più vicine. All’aeroporto militare di Ghedi, in provincia di Brescia, sono infatti conservate diverse bombe atomiche americane B61. L’armamento, equipaggiabile sugli aerei da combattimento Tornado, si trova nel Comune lombardo in base al concetto politico di deterrenza nucleare della NATO: la condivisione nucleare (nuclear sharing). Non è certo una novità che l’Europa abbia armi atomiche statunitensi: in un rapporto sulla deterrenza nucleare pubblicato nel 2019 da alcuni membri dell’Assemblea parlamentare della NATO si legge che «gli Stati Uniti hanno dispiegato approssimativamente 150 armi nucleari in Europa, da utilizzare sia su aerei americani che su velivoli degli alleati». Verosimilmente per «bilanciare il gran numero di armi nucleari a disposizione della Russia». L’Italia non fa eccezione, tant’è che, oltre a Ghedi, nella base di Aviano (Pordenone) si stimano una trentina di ordigni. Secondo Greenpeace, nelle due basi sarebbero presenti circa 40 bombe atomiche in totale.

Se ne discute da anni
Della questione si discute da anni, e oggi è tornata prepotentemente agli onori della cronaca a causa dello scoppio della guerra in Ucraina. L'Italia a maggio del 1975 ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP: in Svizzera è entrato in vigore a marzo del 1977. Il TNP si basa sui principi di disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare), dunque non produce né possiede armi nucleari, ma, come detto, partecipa al programma di condivisione nucleare. Per molti un controsenso vero e proprio.

Secondo «L’Indipendente», da quando è iniziato il conflitto, la base in provincia di Brescia si trova in stato di preallarme e centinaia di abitanti di Ghedi si sono radunate di recente all’esterno dell’aeroporto, per chiedere la fine della guerra e protestare contro l’invio di armi all’Ucraina: una parte di esse arriva proprio da lì. L’azione militare di Putin ha dunque reso il paese di 18 mila anime un obiettivo sensibile in caso di estensione del conflitto. Gli abitanti della zona sono abituati a vedere i caccia militari in azione sopra le loro teste, anche in tempi di pace (almeno alle nostre latitudini). Basti pensare all’ultima grande esercitazione atomica (senza armi cariche) dell’ottobre 2021 denominata Steadfast Noon. La NATO con tale missione di addestramento intendeva garantire che il deterrente nucleare rimanesse «sicuro, protetto ed efficace».

Le proteste e la paura
I promotori delle recenti manifestazioni hanno fatto sentire la loro voce: «Questa base è il simbolo e lo strumento della guerra più estrema e finale, quella nucleare. A Ghedi sono presenti le bombe atomiche e i bombardieri per usarle, e se ne vogliono installare di nuove criminalmente più efficaci (…). Vogliamo fermare l'escalation di rappresaglie e armi, alimentata da una isteria bellicista senza precedenti, il cui sbocco può essere la terza guerra mondiale. Se si vuol la pace si deve costruire la pace, cioè disarmare e sciogliere le alleanze militari a partire dalla NATO». Rifiuto della guerra, ma anche timori in caso di malfunzionamenti degli ordigni o incidenti, perché i danni potrebbero davvero essere pesanti. In un rapporto pubblicato da Greenpeace nel 2020, in cui vengono denunciati gli enormi costi delle armi nucleari, si cita uno studio del Ministero della Difesa italiano, secondo cui in caso di attacchi terroristici con bombe direzionali ad alta penetrazione alle basi di Ghedi e di Aviano si avrebbero effetti catastrofici: le persone raggiunte dal fungo radioattivo sarebbero da 2 a 10 milioni. Un massacro, come in guerra.

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