«Le ultime violenze hanno ucciso il dialogo tra Kosovo e Serbia»

Nella notte fra sabato e domenica, il Kosovo è stato teatro di nuovi durissimi scontri. Un commando armato ha aperto il fuoco contro una pattuglia della polizia locale intervenuta nel nord del Paese per rimuovere un blocco stradale attuato con due camion dalla popolazione serba, sempre più insofferente alla politica del Governo di Pristina ritenuta ostile e discriminatoria. Ne abbiamo parlato con il giornalista e collaboratore dell’ISPI Giorgio Fruscione, esperto di Balcani.
Giorgio Fruscione, lo scontro armato di sabato notte tra la polizia kosovara e un gruppo di estremisti serbi è l’ultimo episodio di una serie di violenze che stanno infiammando il Paese. Quali sono le radici di queste tensioni interne?
«Alla radice c’è uno stallo politico e geopolitico che tiene sospeso il futuro del Kosovo, un Paese che la Serbia continua a rivendicare come propria provincia autonoma, mentre Pristina, da 15 anni, cerca di far valere la propria sovranità su tutto il territorio, inclusi i quattro comuni del nord, dove i serbi rappresentano la maggioranza e dove è saldo il legame con Belgrado».
Che responsabilità ha il Governo di Belgrado in questa situazione così esplosiva?
«In quello che è accaduto domenica, ufficialmente, per ora non è dimostrabile un ruolo diretto. Tuttavia, Belgrado per almeno dieci anni ha plasmato e pilotato i rappresentanti politici dei serbi del Kosovo, i quali hanno quindi sempre agito con un chiaro mandato. In particolare, le strutture amministrative nei quattro comuni del nord sarebbero presiedute da personaggi riconducibili alla criminalità organizzata. L’obiettivo è mantenere il controllo su questo fazzoletto di terra contiguo alla Serbia».
A 24 anni dalla fine della guerra del Kosovo (febbraio 1998 - 11 giugno 1999) la situazione nel Paese è ancora instabile. Perché?
«Di fatto, perché la Serbia rifiuta di riconoscere l’indipendenza di Pristina e lo fa poggiando sul sostegno diplomatico della Russia, e del suo potere di veto in seno alle Nazioni Unite. Un potere che è in grado di ostacolare l’affermazione internazionale del Kosovo. E poi perché il processo di riconciliazione tra le due comunità è stato avversato da entrambe le leadership politiche, ed è rimasto prerogativa esclusiva di alcune timide, seppur lodevoli e minoritarie, iniziative della società civile».
Lo scorso maggio le proteste della comunità serba hanno coinvolto anche i sodati della missione internazionale Kfor, intervenuti per sedare una vera e propria guerriglia urbana. Che cosa denunciava in particolare la minoranza serba?
«Denunciava l’insediamento dei sindaci albanesi, votati da meno del 4% dei votanti in virtù del boicottaggio serbo delle elezioni municipali là dove i serbi sono oltre il 90%. Una delle cause strutturali di quegli scontri era la mancata realizzazione dell’Associazione di comuni serbi prevista dagli accordi di Bruxelles del 2013, quindi di una forma di autogoverno, che gli accordi di Ohrid di quest’anno hanno provato a reintrodurre, ma senza ottenere risultato».


Europa e Stati Uniti in questi anni sono rimasti a guardare? Che cosa è stato fatto e perché non ha funzionato?
«A febbraio e marzo l’Unione europea ha mediato, con il sostegno della diplomazia USA, gli accordi di Ohrid. Ovvero un nuovo accordo quadro per rilanciare il cosiddetto processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina. Il testo che ne è uscito è buono e sembrava soddisfare le richieste di entrambe le parti, ma non è stato firmato. È un’intesa quindi solo verbale. E poi è mancata l’implementazione anche da parte UE, che avrebbe dovuto sanzionare la non applicazione degli accordi. Poi ci sono stati gli scontri di maggio, altre tensioni nella zona di confine e, infine, lo scontro di domenica. Episodi che di fatto fanno morire il processo di dialogo».
Dall’altro lato dello scacchiere politico troviamo invece la Russia che non riconosce il Kosovo. Quale vantaggio trae il Cremlino, alleato della Serbia, da questa situazione?
«L’alleanza è sì forte, ma poggia sul pragmatismo più che su una presunta fratellanza slava o sul panslavismo. La Russia trae vantaggio dall’instabilità nei Balcani per almeno due motivi: in primis perché questa situazione rallenta il processo di integrazione euroatlantica dei Balcani, e poi perché allarma gli europei circa la potenziale apertura di un nuovo conflitto in Europa. In questo modo, la Russia potrebbe sfruttare lo scacchiere balcanico per negoziare con l’Occidente nell’attuale contesto internazionale polarizzato».
Pensa che la situazione possa precipitare?
«Non nella direzione di una guerra tradizionale. Sin dalla cosiddetta guerra delle targhe, escludo che si possa arrivare a un nuovo conflitto e con questo non minimizzo le tensioni, anzi. Queste, per assurdo, rischiano di avere un effetto anche più devastante di una guerra. Perché sono violenze di cui è difficile individuare la catena di comando e che sarebbero quindi imprevedibili. Forse è questo l’obiettivo della Serbia: dimostrare di non avere un controllo diretto su episodi che potrebbero essere interpretati come il frutto di una azione non coordinata dei serbi del nord, anche se su questi Belgrado ha esercitato a lungo un controllo capillare».
Nell’ex Jugoslavia ci sono altri possibili focolai di crisi? Che cosa può fare l’UE per normalizzare i rapporti nella regione?
«La Bosnia Erzegovina è anch’essa in una situazione instabile da due anni a causa del secessionismo “a fuoco lento” del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik. Quello che l’UE dovrebbe fare, o almeno rilanciare, è la propria missione geopolitica. Ora che la guerra in Ucraina ha dimostrato che i pericoli in Europa sono reali, rilanciare l’allargamento ai Balcani significherebbe sottrarli dall’orbita politica ed economica di partner che, invece, li allontanano dagli standard europei».