Il reportage

L'elettronica è di casa alla SUPSI (e qui guarda al futuro)

I traguardi dell'Istituto sistemi e elettronica applicata del Dipartimento tecnologie innovative della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Ivan Defilippis, Professore SUPSI; sullo sfondo, Jasmine Rosselli (Assistente con Bachelor, in formazione Master) verifica un prototipo di robot in uno dei laboratori dell'ISEA, istituto SUPSI
Jona Mantovan
01.06.2023 12:00

A due passi dal Campus USI/SUPSI di Viganello – in via Balestra, sempre in zona universitaria – ha sede l'Istituto sistemi e elettronica applicata, sotto il cappello del Dipartimento tecnologie innovative della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Una realtà fisicamente 'distaccata' rispetto al resto del dipartimento, ma vicina con la 'testa'. Sì, perché in questo istituto l'elettronica è di casa. E guarda al futuro. Lo sa bene Ivan Defilippis, professore SUPSI che presenta con orgoglio i grandi traguardi dell'ISEA, così com'è chiamato l'istituto nel suo acronimo. «A cominciare da questo», dice il 65.enne indicando un poster appeso all'angolo di uno dei laboratori. Sembra la fotografia di una città dall'alto, di notte. Con mille grattacieli e strade viste di strapiombo. Ma no. È un microcircuito, simile ai 'cervelli' di silicone negli elaboratori. «Ci sono parecchi transistor, attorno ai 5.000. È stato fatto nell'ambito del programma 'Microsuisse' in collaborazione con un'azienda ticinese. Il suo compito era regolare una serie di valvole industriali». Un reperto che risale agli anni Novanta, quando ancora l'ISEA era ben lontano dalla sua fondazione (nel 2007) e c'era solo la Scuola tecnica Superiore. «Nel 1997 le Scuole tecniche superiori, insieme a molte altre, confluiscono nelle Scuole universitarie professionali, si crea quindi la Scuola Universitaria professionale della Svizzera Italiana che integrerà subito dopo gli istituti CIMSI e IDSIA», continua Defilippis.

All'epoca la sede sarebbe dovuta essere Trevano «ma era diventata troppo stretta e non permetteva la creazione della sezione di elettronica... Siamo così dovuti ‘emigrare’, diciamo così, a Manno, dove siamo rimasti dal 1993 fino al 2020, quindi 27 anni se vogliamo... provvisoriamente, nell'attesa del nuovo Campus che è arrivato nel 2020 a Viganello. Ma anche in quel caso, purtroppo, non ci stavamo e abbiamo dovuto aprire questa sede distaccata, qui in via Balestra».

Una realtà che si sviluppa in maniera inarrestabile. Fin dal suo stadio embrionale, nel 2005 e con il primo direttore, Ivano Beltrami, conta una trentina di collaboratori. Nel 2016, con il direttore Andrea Salvadé, sono 45 collaboratori fino a oggi, con 53. «Ma a partire da subito, praticamente dal 1993, questo comparto si dedica a realizzare progetti in collaborazione con le aziende. Oggi l'istituto ISEA ha molti campi di competenza: l'elettronica digitale, la microelettronica, la bioelettronica, le quali costituiscono il nucleo originale dell'istituto, l'elettronica analogica, le telecomunicazioni, la radiofrequenza,... E molti altri».

Una vasta gamma di campi di ricerca applicata, insomma, allo scopo di fare da supporto delle aziende del territorio «spaziando su tutti i campi dell'elettronica applicata», conclude Defilippis.

Per fortuna anche qui in Ticino si lavora in questo ambito a diversi livelli. Mi hanno assunta alla SUPSI a tempo pieno per poi propormi di svolgere un Master lavorativo all'interno della Scuola universitaria. Una bella possibilità, che non capita a tutti...
Jasmine Rosselli, 23 anni e assistente con Bachelor, in formazione Master

Un robottino misterioso

Poco oltre, sul pavimento del laboratorio, una sorta di robottino dalla forma piatta e tonda, del tutto somigliante a un aspirapolvere automatico, si sta muovendo silenziosissimo lungo una parete. Di colpo, le rotelline si fermano. Questo misterioso aggeggio è controllato dalla tastiera di Jasmine Rosselli, 23 anni e assistente. «Ho conseguito il Bachelor nella Svizzera francese e ora sto portando avanti la mia formazione Master in robotica a tempo parziale, qui alla SUPSI», spiega staccando gli occhi dalle numerose e colorate linee di codice su fondo nero sui suoi due schermi. Rosselli è, forse, uno dei pochi 'cervelli' tornati in Ticino dopo una prima 'fuga'.

«Sì, il Ticino mi mancava», afferma sorridente la giovane. «Ma, per fortuna, anche qui si lavora in questo ambito a diversi livelli. Ho deciso di propormi qui alla SUPSI, dove mi hanno assunta a tempo pieno per poi propormi di svolgere un Master lavorativo all'interno della Scuola universitaria».

Una possibilità che non viene offerta a tutti e della quale si dice molto contenta. È anche una delle poche ragazze che bazzicano un ambiente molto tecnico/ingegneristico, spesso e volentieri dominato dal genere maschile. «Già da bambina mi era sempre piaciuto creare cose che si muovevano o costruzioni particolari. L'idea di poterlo fare in modo migliore e più avanzato mi ha sempre affascinato», spiega.

Ho scritto un programma allo scopo di fargli mappare una stanza. L'idea è realizzare un sistema automatico di disinfezione di un ambiente
Jasmine Rosselli

Questione di navigazione

Il robottino-aspirapolvere, al cui centro è fissato un palo alto circa un metro, sta ritornando alla sua base, di fianco alla scrivania della giovane scienziata. «Fra le varie cose, sto realizzando un sistema che permetterà a questo robot di muoversi in autonomia. Ho scritto un programma allo scopo di fargli mappare una stanza. L'idea è realizzare un sistema automatico di disinfezione di un ambiente e la mia parte è dedicata appunto alla 'navigazione'».

Rosselli fa parte di un gruppo di lavoro nel quale ognuno ha un compito preciso. «Stiamo lavorando con Spyder e PyCharm, Jupyter Lab... Io, poi, ho deciso di sfruttare il sistema operativo Linux Ubuntu per poter usare ROS, una libreria dedicata ai robot, appunto».

È difficile gestire studio e lavoro, in questo campo? «Sì, riesco a trovare un equilibrio», afferma. «Molte delle cose che ho appreso durante la mia esperienza sul lavoro riesco ad applicarle nello studio, viceversa parecchie nozioni imparate durante i corsi mi tornano utili sul lavoro».

Dobbiamo analizzare il profilo di pezzi meccanici per rilevare errori di lavorazione prima del cosiddetto processo di sabbiatura. Questo tipo di analisi ancora non è disponibile sul mercato e permetterà alla catena di produzione di salvare molti pezzi con un grosso risparmio in termini economici
Gianluca Montù, 43 anni, docente ricercatore senior

Dove l'innovazione abbonda

Le tavolate attorno a lei sono colme di qualsiasi tipo di attrezzatura elettronica. Cavi e computer abbondano nel panorama, da cui spicca la camicia bianca di Gianluca Montù. Quarantatré anni, docente ricercatore senior dell'istituto, sta sistemando un pezzo metallico lungo un sottile nastro trasportatore che ricorda una di quelle piccole casse nei negozi di alimentari formato gioco, a misura di bambino. Lo scopo, però, qui è ben altro. 

«Si tratta di un progetto in collaborazione con una ditta ticinese, Tomaco, finanziato dall'Agenzia svizzera per l'innovazione Innosuisse», esordisce l'esperto, indicando il prototipo ancora in fase di affinamento. Al termine del nastro trasportatore c'è montata una telecamera in verticale.

«Dobbiamo analizzare il profilo di pezzi meccanici per rilevare errori di lavorazione prima del cosiddetto processo di sabbiatura. Questo tipo di analisi ancora non è disponibile sul mercato e permetterà alla catena di produzione di salvare molti pezzi con un grosso risparmio in termini economici».

Questi grossi quadrati si chiamano ‘pixel’, i limiti dell'occhio elettronico della videocamera. Noi, però, siamo in grado di aumentare virtualmente la sua risoluzione, tramite un procedimento matematico, arrivando a una precisione di quattro micrometri
Gianluca Montù

Robustezza e convenienza

Un paio di clic e il 'tappeto' si muove spostando il pezzo di metallo, piatto e grande un paio di centimetri – la cui forma richiama una lettera 'Y' con un braccio un po' più corto dell'altro – sotto la camera, facendo apparire sullo schermo il contorno. Un paio di clic per ingrandire l'immagine. «Questi grossi quadrati si chiamano ‘pixel’, sono i limiti di quel che l'occhio elettronico della videocamera riesce a vedere. Noi, però, siamo in grado di aumentare virtualmente la sua risoluzione, tramite un procedimento matematico denominato 'subpixel', arrivando fino a una precisione di quattro micrometri».

Un sistema che, se completato con successo, permetterà di installare telecamere più robuste sulle macchine. L'ambiente industriale, infatti, non va d'accordo con le delicate apparecchiature ad alta definizione. Le quali, fra l'altro, costano anche molto di più.

«Il prossimo passo sarà applicare algoritmi di classificazione per distinguere errori dovuti alla presenza di sporco di lavorazione, per esempio bava metallica, dagli errori dovuti a un difetto di lavorazione. Un difetto che, se non individuato per tempo, rischia di fermare la catena di produzione facendo perdere migliaia di pezzi appena prodotti».

Il nostro progetto serve al chirurgo per ottenere dei migliori risultati durante l'operazione
Roberto Gardenghi, 55 anni, responsabile area di fotonica applicata e optoelettronica

Una 'nuova' fluorescenza

L'edificio in via Balestra è su più piani, ed è il momento di raggiungere l'area di fotonica applicata e optoelettronica, sempre sotto la guida di Defilippis. Una rampa di scale, un altro portone ed ecco un laboratorio simile a quello precedente. Il responsabile, Roberto Gardenghi, sta scorrendo del codice informatico insieme all'assistente con Master, Sebastiano Marinelli. 

Sul tavolo di lavoro, di fianco alla tastiera, c'è appoggiato un modellino in scala che riproduce la forma di un cervello umano. «Il nostro progetto serve al chirurgo per ottenere dei migliori risultati durante l'operazione», esordisce Gardenghi. «Per visualizzare meglio l'area tumorale, chi opera ricorre a una tecnica, detta fluorescenza, che mette in risalto il tessuto tumorale e permette di capire dove tagliare e dove no». Il 55.enne sottolinea come il contrasto con gli strumenti esistenti, tuttavia, sia molto scarso.

«Il risultato è molto soggettivo. Nella nostra soluzione, abbiamo messo a punto un sistema basato sulle tecniche ‘iperspettrali’, che permettono un miglior riconoscimento di questo limite, dell'area nella quale si deve operare».

Abbiamo contatti con alcune aziende interessate a trasferire questa applicazione sul mercato
Roberto Gardenghi

Ci vuole ancora qualche anno

Al momento, questo progetto si trova ancora in una fase sperimentale da laboratorio, «ma nella prossima fase di sperimentazione effettueremo una serie di esami 'sul campo', direttamente in sala operatoria», precisa lo scienziato. «L'arco temporale dovrebbe estendersi lungo due o tre anni. Abbiamo contatti con alcune aziende interessate a trasferire questa applicazione sul mercato».

Dalle prime prove in sala operatoria con strumenti 'provvisori' a un vero e proprio prodotto integrato fatto e finito, però, ci vorrà ancora del tempo. «C'è anche tutta la fase di certificazione... fino a quando arriveremo là, potrebbero trascorrere anche dai cinque ai dieci anni».

Nel frattempo, Sebastiano ha concluso le fasi preparatorie ed è pronto per una dimostrazione. «In questi modellini in gelatina abbiamo iniettato un materiale fluorescente, una sostanza simile a quella prodotta dal tumore. Il paziente ingerisce un preparato che, metabolizzato, fa sì che l'area tumorale, illuminata da una luce blu, emetta in risposta una luce rossa».

Qui abbiamo un microscopio che rileva l'immagine. La luce passa attraverso un filtro ottico che seleziona la parte di luce che ci interessa. Il tutto è poi trasmesso al PC che elabora i dati e ci permette di visualizzare questo risultato
Sebastiano Marinelli, 28 anni, assistente con Master

La casa del futuro

Ed è proprio questa luce rossa che è analizzata dal sistema. Il giovane assistente con Master colloca il vetrino, una piastra di Petri, all'interno una cassetta poco più piccola di un forno microonde. Chiude il coperchio e, al suo interno, si accende una luce blu. Marinelli mostra i vari passaggi. «Qui abbiamo un microscopio che rileva l'immagine. La luce passa attraverso un filtro ottico che seleziona la parte di luce che ci interessa. Il tutto è poi trasmesso al PC che elabora i dati e ci permette di visualizzare questo risultato», illustra il 28.enne.

Sullo schermo, un'immagine in bianco e nero del modellino in gelatina. Tra le pieghe del modellino, ecco evidenziati in rosso i contorni del 'tumore' simulato in laboratorio. Le aree sono nitide, dai contorni precisi. Così come promesso dagli scienziati.

Questa è soltanto una delle tante applicazioni messe in atto dall'Istituto sistemi e elettronica applicata del Dipartimento tecnologie innovative della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Che, negli anni, ha realizzato decine di progetti innovativi incrociando tecnologia, sensori, informatica, programmazione e tanta, tanta elettronica. Dal primo microcircuito degli anni Novanta ai robot che si muovono in modo autonomo di oggi, passando per un sistema che permette di risparmiare e 'salvare' migliaia di pezzi di metallo di una produzione industriale, fino a un sistema che permetterà ai chirurghi di lavorare con più precisione. Sì, il futuro dell'elettronica apre le porte a un mondo migliore. Un futuro che ha casa qui, all'ISEA.

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