L'editoriale

L’intesa fiscale italo-svizzera attenua le distorsioni di frontiera

Salvo sorprese dell’ultima ora, entro quest’anno l’accordo italo-svizzero che regolerà il trattamento fiscale dei lavoratori frontalieri sarà finalmente realtà
Generoso Chiaradonna
18.02.2023 06:00

Dopo il voto di ratifica quasi unanime del Senato di fine gennaio (un solo voto contrario, ma per errore) nei prossimi mesi dovrà esprimersi la Camera dei deputati. Salvo sorprese dell’ultima ora, entro quest’anno l’accordo italo-svizzero che regolerà il trattamento fiscale dei lavoratori frontalieri sarà finalmente realtà. L’iter di ratifica a Berna è già stato completato lo scorso anno. L’intesa che sostituirà quella del 1974 è stata fortissimamente voluta sia dal Ticino, sia dalla Confederazione almeno per due ragioni: in primis bisognava superare la logica dei ristorni a favore dei Comuni di confine (entro i 20 km); in secondo luogo, si voleva mantenere sul territorio cantonale più gettito possibile dall’imposta alla fonte che colpisce i redditi dei frontalieri. Obiettivi apparentemente raggiunti, visto che dalla precedente ripartizione (a spanne: 60% per la Svizzera e 40% per l’Italia) si passerà - a regime più che decennale – a una cosiddetta imposizione concorrente. Ogni autorità fiscale, da una parte e dall’altra del confine, tasserà secondo le proprie aliquote sul reddito: in Ticino, però, solo l’80 percento sarà colpito da imposta. In Italia, invece, verrà tassato tutto il reddito conseguito in Svizzera, fatti salvi i primi di diecimila euro. Dall’imposta italiana verrà ovviamente dedotto quanto versato oltre confine: né più né meno di quanto avviene già oggi, per esempio, al frontaliere milanese (fuori fascia di confine) occupato a Chiasso. Nulla di nuovo nemmeno rispetto ai frontalieri tedeschi (68 mila circa) o quelli francesi (208 mila circa). Anche in questo caso ognuno tassa il reddito dei suoi cittadini tenendo conto di quanto pagato in Svizzera. La Francia, per dire, ristorna imposte alla Svizzera.

Ma gli accordi per essere tali devono soddisfare le due parti in causa. È così in una relazione tra persone e a maggior ragione tra Stati i quali – per citare Henry Kissinger – non hanno né nemici, né amici ma soltanto interessi da difendere. Dal lato italiano, l’interesse manifesto era quello di mettere fine a una palese e antistorica disparità di trattamento fiscale tra chi – in una fascia di venti chilometri – abita in prossimità del confine svizzero e lavora in Italia e tra chi invece lavora in Svizzera, ma vive in Italia. In pratica far rientrare sotto la sovranità fiscale italiana almeno parte dei redditi prodotti all’estero da questi lavoratori. E questo senza scontentare gli attuali lavoratori frontalieri - importante bacino elettorale - per i quali nulla cambierà rispetto a oggi e per i successivi dieci anni dall’entrata in vigore dell’accordo. Il futuro gettito fiscale sarà quindi molto più alto di quanto ottenuto con il vecchio sistema dei ristorni che pure è aumentato di anno in anno negli ultimi dieci anni. Nel 2021, per esempio, i circa 90 mila lavoratori frontalieri italiani in Svizzera (78 mila dei quali solo in Ticino), hanno garantito – via Roma – 97 milioni di franchi alle casse dei Comuni della fascia di confine. Erano 55 milioni nel 2011.

L’altro interesse occulto, questa volta di Berna, era quello di togliere un improprio strumento di pressione dalle mani del Ticino che si scontra con il linguaggio felpato della diplomazia. Il tempo passa veloce e anche la memoria incomincia a fare difetto a molti. L’accordo del 1974 prevede, tra le altre cose, che il Ticino faccia da interlocutore con le province di confine e di fatto ente pagatore dei ristorni. La richiesta di bloccarli era un mantra politico recitato a giugno di ogni anno. Nel 2011 questo blocco ci fu come anche le reazioni stizzite di Berna e Roma nei confronti di Bellinzona. La Svizzera si ritrovò suo malgrado a essere inadempiente in un trattato internazionale. In Ticino se ne occupò addirittura la magistratura su denuncia di un privato cittadino che accusava i tre membri del Consiglio di Stato che avevano avallato il blocco, di abuso di potere. Puntuale arrivò il decreto di non luogo a procedere.

Non bisogna però dimenticare che il futuro trattamento fiscale dei lavoratori frontalieri avrà anche una funzione antidumping rendendo il mercato del lavoro transfrontaliero un po’ più equo. Con una pressione fiscale più elevata, il futuro operaio o impiegato di Varese o di Menaggio potrebbe pretendere giustamente un salario più elevato. Che non è per forza un male né per loro, né per l’omologo operaio luganese. A titolo di curiosità, nel 1974 la pressione fiscale italiana sulle persone fisiche era del 23,3%. Oggi è del 43,8%, mentre quella Svizzera è di circa il 25%.

In questi giorni da una parte e dall’altra del confine si paventano disgrazie fiscali per i futuri frontalieri e di scarsità di manodopera che metterebbero in difficoltà le rispettive economie. Ora, è vero che la frontiera italo-svizzera è permeabile e che i due territori, almeno in prossimità del confine, sono complementari e in osmosi da sempre. E lo sarà anche in futuro, lo dicono la storia e la geografia oltre alla cultura comune. Dal 2002 la Svizzera però ha aderito alla libera circolazione delle persone con l’UE. Il lavoratore frontaliere può arrivare da Helsinki come da Palermo ed esercitare la sua professione ovunque sul territorio svizzero. L’unico vincolo è il rientro settimanale al domicilio in patria. Nel 1974 e negli anni precedenti questo non poteva avvenire. C’era lo statuto degli stagionali e i permessi di dimora e di domicilio erano rigorosamente contingentati, mentre il bacino di manodopera estera liberamente reclutabile era solo quella a ridosso del confine svizzero. I ristorni fiscali compensavano l’Italia per poter reclutare braccia e non far venire qui uomini, per parafrasare una bella frase dello scrittore Max Frisch. A cinquant’anni di distanza nessuno più – e per fortuna - vieta a chi ha un lavoro in Svizzera di trasferirsi con tutta la sua famiglia.