Giustizia

Mai così vicini all'estradizione

Si torna a parlare di Julian Assange, dopo che la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso formalmente l’ordine di estradizione negli Stati Uniti – Il fondatore di WikiLeaks rischia fino a 175 anni di carcere
Irene Solari
26.04.2022 10:03

Si torna a parlare del caso Assange dopo che le autorità britanniche, qualche giorno fa, hanno formalmente dato l’autorizzazione di estradizione verso gli Stati Uniti nei confronti del fondatore di WikiLeaks. La decisione è stata presa lo scorso 20 aprile dalla Westminister Magistrates’ Court di Londra. La palla è ora nel campo della ministra degli Interni britannica, Priti Patel. Starà a lei, infatti, decidere se ammettere o rifiutare il trasferimento di Assange Oltreoceano. Una decisione che ha un peso significativo: 175 anni di galera. Questa è la pena che il whistleblower rischia nel momento in cui metterà piede su suolo americano.

I fatti

Che cosa è successo esattamente? Dobbiamo tornare indietro fino al 2010, quando ad Assange viene contestato di aver diffuso oltre 700 mila documenti secretati sulle attività belliche e diplomatiche svolte dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq. Nelle carte vengono portate alla luce denunce di crimini di guerra e abusi commessi dagli americani durante questi conflitti. Le informazioni vengono fornite ad Assange da Chelsea Manning, ex-militare statunitense e analista di intelligence nella guerra in Iraq. Finita anche lei nell’occhio del ciclone come whistleblower, accusata di aver trafugato e consegnato a WikiLeaks numerosi documenti coperti dal riserbo – si parla di decine di migliaia – mentre svolgeva il proprio incarico bellico. Manning è stata riconosciuta colpevole di diversi reati contro la sicurezza nazionale statunitense ed incarcerata. Mentre, nei confronti di Assange, Washington ha emanato una richiesta di estradizione, una delle forme della cooperazione giudiziaria internazionale tra Stati. Proprio quella che sarebbe a un passo dall'essere ammessa dalle autorità britanniche. E che significherebbe per il fondatore di WikiLeaks una condanna a vita, dato che sulla sua testa pende una condanna a 175 anni di reclusione.

Julian Assange non doveva essere estradato a causa delle sue condizioni di salute mentale, l'uomo era stato ritenuto a rischio suicidio

Mai così vicini all’estradizione

Le battaglie legali durano da ormai oltre dieci anni, ma non si è mai arrivati così vicini all’estradizione. Una prima decisione riguardo al trasferimento dell'attivista verso gli Stati Uniti era già arrivata il 5 gennaio 2021. Ed era stata negativa. Julian Assange non doveva essere estradato a causa delle sue precarie condizioni di salute mentale. L’uomo era stato ritenuto a rischio suicidio.
Undici mesi dopo, il 10 dicembre, è invece l’Alta Corte di Londra a intervenire, ribaltando la sentenza precedente e ammettendo quindi la possibilità di estradizione Oltreoceano. Secondo l'Alta Corte non sussisteva la motivazione addotta in precedenza: Assange non soffrirebbe di «disturbi psicologici seri e duraturi», si legge nella sentenza. Quindi non sarebbe più possibile negare l'estradizione sulla base di queste premesse. A supporto di questa tesi, l'avvocato James Lewis – rappresentante dell'autorità di Washington – ha precisato che Assange, una volta giunto negli Stati Uniti, non verrebbe sottoposto a delle condizioni di prigionia troppo dure. Niente isolamento. Niente carcere di massima sicurezza. E la possibilità di scontare la pena nella natia Australia, una volta concluso il processo negli States. Aggiungendo che queste condizioni da lui esposte, rivestirebbero un carattere «vincolante per gli Stati Uniti».
Quindi l'estradizione è di nuovo possibile. E gli avvocati dell'attivista oppongono un ricorso. Arriviamo così al mese scorso: il 14 marzo 2022 la Corte Suprema del Regno Unito respinge il ricorso interposto dai legali di Assange contro la sentenza favorevole all’estradizione. La decisione finale ora spetta, di fatto, al ministro dell’Interno Patel che dovrebbe dare il via libera finale. È notizia di qualche giorno fa – il 20 aprile – la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso formalmente l’ordine di estradizione negli Stati Uniti. E, salvo il deposito di un ricorso all’ultimo minuto, si attende la parola di Patel. 
C’è ancora una possibilità per Assange: i suoi legali potrebbero interporre un appello davanti all’Alta Corte britannica nel caso in cui la ministra degli Interni confermi la decisione di estradizione.

L'avvocato James Lewis, rappresentante di Washington, ha precisato che Assange una volta giunto negli Stati Uniti, non verrebbe sottoposto a delle condizioni di prigionia troppo dure

Prigionia e proteste

Assange si trova detenuto in prigione nel Regno Unito dall’11 aprile 2019. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, conosciuto come «la Guantánamo britannica». Luogo in cui si trova confinato a seguito della domanda di estradizione presentata da Washington nei suoi confronti proprio per le accuse di cospirazione e di spionaggio. La detenzione e le condizioni nelle quali si trova Assange, oltre alla prospettiva di un’eventuale prigionia a vita negli Stati Uniti, hanno particolarmente scosso l’opinione pubblica. Sollevando reazioni di sdegno. Numerose sono state le proteste, gli appelli e le persone scese per le strade a esprimere il loro dissenso verso la condanna e l'incarcerazione dell'attivista. Hanno mostrato il loro sostegno ad Assange anche organizzazioni a salvaguardia dei diritti umani e della libertà di stampa. E, non da ultimo, l’appello del relatore delle Nazioni Unite sulla tortura e i trattamenti inumani, Nils Melzer che si è espresso a favore della liberazione di Assange e sulla sua non estradizione. L'attivista è stato anche inserito tra i canditati al Premio Nobel per la Pace.

Punire per più di un secolo

Negli Stati Uniti la legge prevede, nei confronti dei crimini più gravi, pene di moltissimi anni. Talvolta anche superiori al secolo. O, come avvenuto in un caso di patteggiamento – quello di Ariel Castro, in Ohio – per evitare la pena di morte, addirittura mille. Fatto che sta a significare necessariamente che il detenuto finirà la propria vita dietro le sbarre.
Questo avviene, parlando da un punto di vista puramente tecnico, perché il sistema di calcolo applicato Oltreoceano è cumulativo. Ovvero, vengono sommati insieme tutti gli anni di pena privativa della libertà previsti per ogni singolo capo di imputazione.
Ma ci sono altri aspetti psicologici parte di questo singolare metodo da non sottovalutare. Anche perché potrebbe apparire ai nostri occhi come insensato condannare una persona a 100 o 500 anni di detenzione, quando anche "solo" una pena di 50 anni basterebbe per far passare al colpevole tutta la vita in prigione. Eppure la giustizia statunitense tiene parecchio in conto questo aspetto del numero "esagerato" degli anni di detenzione. È una parte fondamentale del sistema legale e giudiziario.
Altri aspetti dicevamo. Uno è quello del voler sottolineare, e quindi punire di conseguenza, la responsabilità individuale dell'imputato. L'altro è quello dell'aspetto risarcitorio e riparatore nei confronti delle vittime. Pene privative della libertà di questo calibro vengono stabilite di solito nel caso in cui non sia possibile condannare l'imputato direttamente alla pena di morte. Parliamo di crimini estremamente gravi. Il numero di anni di detenzione assume quindi anche un forte significato simbolico. Il giudice intende comunicare all'imputato che è «proprio una pessima persona», così ha spiegato un professore americano di diritto alla BBC.

© Shutterstock
© Shutterstock
Correlati