Bataclan, «non c'è oblio né perdono, i terroristi non sono riusciti a dividere la società»

Daniel Psenny è un testimone diretto degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi. Ha documentato la strage al Bataclan ed è stato chiamato a testimoniare al processo all’unico attentatore rimasto in vita, Salah Abdeslam. Lo abbiamo intervistato.
Quella tragica sera del 13 novembre di dieci anni fa, quando Parigi e lo Stade de France furono colpiti da un commando jihadista che portò alla morte di 132 persone, Daniel Psenny si trovava a casa sua, situata accanto al Bataclan. Quando ha cominciato a sentire i primi colpi di kalashnikov, il giornalista, che all’epoca lavorava per Le Monde, si è affacciato dalla finestra, che dava proprio su un’ uscita della sala. «Ho visto la gente scappare, ma non ho capito subito che si trattava di un attentato», ricorda. L’istinto, però, è stato quello di prendere lo smartphone e riprendere quei momenti, consegnando al mondo le prime immagini di quella che è poi diventata la pagina più nera della recente storia di Francia, ricordata oggi nel decimo anniversario. Nella registrazione si vede una donna aggrappata a una finestra del Bataclan, mentre implora aiuto spiegando di essere incinta. Un’immagine diventata simbolo di quella notte. Il giornalista, colpito al braccio da una pallottola mentre cercava di salvare una persona facendola entrare nel suo palazzo, ha deciso di ricostruire quell’esperienza nel documentario Venerdì nero.

Monsieur Psenny, perché ha deciso di fare un documentario su quella terribile notte?
«È un progetto nato diversi anni fa. Volevo sapere che fine avessero fatto le persone riprese nel video che ho girato la sera degli attentati, così ho cominciato una ricerca per ritrovarli. Alcuni li ho rintracciati presto, per altri mi ci è voluto un po’ più di tempo. Volevo soprattutto avere informazioni sulla donna incinta che nelle immagini rimane aggrappata alla finestra per sapere come stesse e se alla fine avesse partorito. Ho impiegato parecchio tempo per arrivare fino a lei».
Come l’ha trovata?
«Quando ho testimoniato al processo che si è aperto nel 2021 sono stato contattato dal suo avvocato. Mi ha spiegato che la sua assistita voleva incontrarmi. Ho scoperto in quel momento che si chiama Charlotte. Non aveva voluto più saperne nulla di quello che era successo la notte degli attentati. Non aveva mai visto il video che le ho fatto, anche se era a conoscenza della sua esistenza e del fatto che le immagini la mostravano appesa alla finestra. Abbiamo parlato e dopo una serie di conversazioni ho ottenuto la sua fiducia. A quel punto ho cominciato a cercare gli altri sopravvissuti. Sono sette, tutti ripresi nel mio video fatto quella sera, e ognuno di loro racconta quello che è successo durante l’attacco, il modo in cui si sono salvati e come vivono oggi. Sono quelli riusciti a salvarsi, perché molti sono morti».
Che tipo di approccio ha scelto di utilizzare?
«È stato un lavoro giornalistico, non ero alla ricerca del pathos. Ho provato a farli parlare per avere una testimonianza più diretta possibile. Non è la storia dell’attacco al Bataclan, ma quella di un piccolo gruppo di persone».
Ha notato un fil rouge comune nel loro racconto?
«No, perché ognuno ha vissuto lo stesso evento tragico, nei confronti del quale però hanno letture diverse. Alcuni hanno riportato gravi ferite, mentre altri ne sono usciti fisicamente indenni ma con problemi psichici e sindromi post-traumatiche».
Lei come vive l’anniversario di quest’anno?
«Io ho voltato pagina il 19 ottobre del 2021, quando ho testimoniato al processo. Mi ero costituito parte civile, come tante altre vittime. Il presidente della Corte speciale chiese di trasmettere il video che avevo fatto nell’aula di tribunale, davanti ai terroristi, affinché sapessero quello che avevano fatto».
Che effetto le ha fatto vedere in aula Salah Abdeslam, l’unico membro del commando rimasto in vita, condannato all’ergastolo duro senza sconti di pena?
«Nessuno. Lui e gli altri imputati (accusati di complicità con il gruppo jihadista, ndr) mi sono apparsi come dei giovani senza nessuna personalità, che non facevano nemmeno paura. Tuttavia, sono i responsabili della morte di più di 130 persone e di migliaia di feriti. Il tutto in nome di un’ideologia che, a mio avviso, non capiscono nemmeno».
Che idea si è fatto della notizia uscita recentemente, secondo la quale è stato scoperto che Abdeslam ha utilizzato delle chiavi Usb sul suo computer in cella?
«Nonostante si trovi in una prigione di massima sicurezza riesce a comunicare con l’esterno e a perpetrare la sua ideologia. È la dimostrazione del fatto che ci sono delle falle nell’amministrazione penitenziaria e nella giustizia».
Come è cambiata la Francia dopo quella tragica vicenda, avvenuta in un periodo che ha inaugurato una nuova stagione dell’incubo islamista?
«Il terrorismo punta a dividere la società, ma gli attacchi del 2015 non sono riusciti a raggiungere questo obiettivo. In Francia esistono però alcune fratture, che risalgono a molto tempo fa. Ci sono problemi con alcuni Paesi del Maghreb e con l’Islam. Dopo la Guerra d’Algeria (1954-1962, ndr), che ha rappresentato un trauma per la società francese, sono venuti molti algerini a lavorare qui da noi. Quando non c’è stato più bisogno di loro, sono stati abbandonati. Rimasti senza alcuna prospettiva, i figli e i nipoti di questi immigrati si sono rifugiati nella religione. La Francia ha quindi una responsabilità nella situazione che si è creata e ne paga il prezzo».
Gli effetti si vedono ogni giorno nella società.
«Ci sono effettivamente tensioni molto forti, alimentate anche a livello politico».
Che impatto ha avuto quella tragica esperienza sulla sua persona?
«Un cambiamento è inevitabile quando si subisce uno shock così forte, con ferite fisiche, psichiche e morali. Ma penso che quanto accaduto abbia cambiato in modo più generale le persone in Francia, in Europa e nel resto del Mondo. Un po’ come è successo dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001. Ci sono diverse ripercussioni sulla percezione della vita e del futuro in tutta la società, non solo tra le vittime degli attentati».
È possibile perdonare?
«Né oblio né perdono. Questo vuol dire che si continua a vivere senza mai dimenticare quello che è successo e non si perdona, perché uccidere tante persone in un modo del genere, senza motivo, è ingiustificabile».
La scia di morte che cambiò per sempre Parigi e l'Europa
Sono le 21.20 del 13 novembre 2015. Un terrificante boato scuote lo Stade de France, nel cuore del popolare quartiere di Saint-Denis, dove 80 mila spettatori stanno assistendo alla partita Francia-Germania. I giocatori si fermano, i tifosi si guardano. Sulla tribuna d’onore c’è anche François Hollande. L’allora presidente della Repubblica francese viene immediatamente portato via dai servizi di sicurezza. Paura e tensione attraversano tutto lo stadio, ma le autorità decidono di non sospendere la partita. Troppo alto il rischio di scatenare il panico. Bisogna innanzitutto capire che cos’è successo. La realtà è cruda, violentissima, ma inizialmente si fatica a comprendere la dimensione di ciò che sta accadendo. Uno degli attentatori si è fatto saltare in aria sul piazzale esterno dello stadio, provocando la morte del conducente di un autobus parcheggiato lì vicino. È solo l’inizio. Perché una parte del commando di terroristi dà inizio alla mattanza che segnerà per sempre Parigi, la Francia e l’Europa. Una SEAT Léon nera con quattro di loro si dirige verso sud. Le raffiche dei fucili automatici colpiscono due ristoranti, Le Carillon, in Rue Alibert, e Le Petit Cambodge, in Rue Bichat. Durante la sparatoria i terroristi inneggiano alla Siria e all’Iraq, urlano «Allahu Akbar». Vengono scaricati circa 100 proiettili. I morti nei due locali sono 13, 10 i feriti gravi. Ma la corsa della morte non si ferma. Poco dopo (sono appena le 21.32) c’è la seconda sparatoria nelle vicinanze del Café Bonne Bière e della pizzeria Casa Nostra, in Rue de la Fontaine au Roi. La scia di sangue si aggrava: altri cinque morti, 8 i feriti. Non è finita. Qualche minuto dopo è un altro locale a venire investito dalle pallottole: il ristorante La Belle Équipe, in rue de Charonne. Drammatico, ancora, il bilancio: 21 vittime, 9 feriti.
Bataclan, simbolo del male
Sono le 21.40. Dall’esplosione allo Stade de France sono passati appena 20 minuti. È a quell’ora che si consuma l’orrore più grande, il simbolo stesso del male. La strage al Bataclan. Nella sala concerti – sul palco ci sono gli Eagles of Death Metal – ci sono 1.500 persone. Ancora un’auto nera, ma stavolta è una VW Polo, parcheggia lì vicino. Tre terroristi fanno irruzione nel teatro e cominciano ad aprire il fuoco. I morti sono decine. Le forze di polizia circondano l’edificio, ma i terroristi tengono in ostaggio diverse persone. Ancora morti, ancora orrore. È uno stillicidio che dura ore, finché attorno a mezzanotte e mezza le forze dell’ordine fanno irruzione e pongono fine alla mattanza. Sono 132 le vittime totali (7 i terroristi morti) e oltre 400 i feriti. L’unico superstite del commando è Salah Abdeslam, arrestato mesi dopo e condannato all’ergastolo. Le indagini, febbrili, portano all’individuazione di reti di fiancheggiatori in Francia e in Belgio.
«Pianificava un attentato»
La cronaca e le indagini, in questi dieci anni, non si sono mai fermate. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia della carcerazione preventiva di Maewa B., ex compagna ventisettenne di Abdeslam, e di altre due persone. Il pool che ha indagato su questo filone ha ritrovato, su «supporti digitali sequestrati in casa di Maewa B.», «diverse discussioni o ricerche relative ad un distinto progetto di azione violenta, senza legami con Abdeslam». Abdeslam che è considerato, ancora oggi, «radicalizzato». La brace del terrorismo, in Francia, arde ancora.