4 agosto 2020

Beirut, due anni dopo l’esplosione: «Lo Stato è sempre più assente»

L’inchiesta sulla deflagrazione al porto, costata la vita a 233 persone, è ferma a causa dell’ostruzionismo politico di alcuni ministri
Francesco Pellegrinelli
04.08.2022 06:00

«Per il popolo libanese, il 4 agosto 2020 è una data simbolo. L’esplosione del porto di Beirut ha certificato l’esistenza di una crisi profonda e inarrestabile. Il 4 agosto si è palesata, in tutta la sua gravità, l’assenza dello Stato». Martino Diez è direttore scientifico della fondazione internazionale Oasis, e professore associato di lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano. «È come una valanga che raggiunta la massa critica si mette in moto e diventa impossibile fermarla». L’esplosione del porto di Beirut è la valanga dei libanesi, chiosa Diez. L’inizio di un declino politico che rischia di proseguire ancora a lungo.

Gli accertamenti giudiziari

L’inchiesta giudiziaria sull’esplosione del porto è ferma da mesi - conferma Diez - bloccata dall’ostruzionismo degli ambienti politici vicini ai rappresentanti istituzionali, accusati di esser stati per anni a conoscenza della presenza nel porto di tonnellate di nitrato di ammonio ma di non aver fatto nulla per evitare la strage. «È stata una delle esplosioni non nucleari più potenti di sempre», spiega al CdT Salim Daccache, rettore dell’Università Saint-Joseph di Beirut. «Il porto ancora oggi mostra i segni dell’esplosione. I silos di grano danneggiati non sono stati demoliti e domenica scorsa uno è crollato». Nella deflagrazione del 2020, ricorda Daccache, sono morte 233 persone e altre 6 mila sono rimaste ferite, di cui un migliaio sfigurate e menomate a vita.

«Cosa ci facevano 2.750 tonnellate di nitrato, il cui impiego è essenzialmente militare, in quell’hangar? Che cosa ha innescato l’esplosione?». Diez spiega che la gestione degli scali in Libano viene affidata alle fazioni politiche. A Beirut, in particolare, all’organizzazione Hezbollah. «È proprio questa organizzazione politica che oggi osteggia l’inchiesta, e che accusa il giudice inquirente, Tareq Bitar, di essere politicizzato. «L’inchiesta è intralciata dall’ostruzionismo dei ministri indicati dal magistrato come i responsabili dell’esplosione», aggiunge Daccache. Lo scorso novembre, Hezbollah ha organizzato una manifestazione per chiedere la sospensione del magistrato, e il corteo è degenerato in uno scontro armato tra civili. «Hezbollah rifiuta l’inchiesta sostenendo che sia pilotata dalle potenze occidentali contro l’Iran e i suoi rappresentanti in Libano», aggiunge Daccache. «Temo che non si arriverà mai a identificare i responsabili dell’esplosione, per quanto sia chiaro a tutti che il nitrato apparteneva a Hezbollah, che se ne serviva per scopi militari in Siria», osserva Diez. Intanto proprio ieri un gruppo di organizzazioni non governative libanesi e internazionali ha chiesto all’ONU di far luce sull’evento con un’indagine indipendente.

Che dire, invece, di Israele? L’ipotesi che lo Stato ebraico abbia innescato l’esplosione per mandare un avvertimento a Hezbollah è largamente diffusa nel Paese. «È un’ipotesi insensata, diffusa in un Paese malato di complottismo. Molto più semplicemente Hezbollah non ha preso le precauzioni che andavano prese per lo stoccaggio del nitrato», sostiene Diez.

Il fallimento politico

«Il Libano è uno Stato fallito, sia politicamente sia finanziariamente», commenta Diez. «Lo Stato non è più in grado di esercitare la propria sovranità sul Paese e questo si riflette a livello istituzionale: dal completo abbandono dell’area del porto, all’incapacità di reagire alla crisi economica, all’incapacità di generare un cambiamento politico». Sono stati i cittadini a rimuovere le macerie, spiega Diez. Sono loro che hanno ricostruito, per quanto potevano, le case danneggiate nella zona del porto. «Tutto è stato lasciato all’iniziativa dei privati, che hanno dovuto sopperire alla mancanza dello Stato. Anche la nostra Università è stata danneggiata e non abbiamo ricevuto aiuti», osserva Daccache.

Ma la crisi è ben più profonda, aggiunge Diez: «È tutto il sistema politico che non riesce più a rigenerarsi, per cui anche le elezioni non portano nessun cambiamento». Il tutto mentre una profonda crisi finanziaria sta mettendo in ginocchio il Paese. Il valore di cambio della lira libanese, che era mantenuto artificialmente a un tasso fisso con il dollaro, è crollato, spiega Diez. «Visto che moltissime merci, cibo compreso, vengono importate e pagate in dollari, i cittadini libanesi si sono ritrovati con un potere di acquisto decimato. «Nel Paese gli scioperi sono in aumento», ammonisce Daccache. Diversi servizi inoltre sono venuti meno. «Per esempio, lo Stato ha spento l’elettricità, perché non aveva più i soldi per pagare le forniture di petrolio che sono necessarie per le centrali termiche. Oggi l’elettricità va e viene», osserva Diez. «LoStato non fornisce più di due ore al giorno di corrente. Per il resto dobbiamo arrangiarci con generatori privati», spiega Daccache.

La sicurezza alimentare

Anche la sicurezza alimentare risente della situazione, e la guerra in Ucraina ha aggravato la crisi. «La produzione agricola interna non è sufficiente e il Paese deve importare parte della sue derrate», spiega Diez. Intanto, a inizio settimana, la prima nave carica di grano ucraino è partita da Chornomorsk con 26mila tonnellate di mais destinate proprio al Libano. Una buona notizia in una crisi allargata che si riflette in un fenomeno nuovo, spiega Diez: «Tradizionalmente il Libano è considerato un Paese ricco, meta per le popolazioni confinanti. Ora, invece, per la prima volta, i libanesi vogliono fuggire, anche clandestinamente, verso l’Europa. Esattamente come accade in Libia, ma in misura minore».

Le prospettive

«Nell’immediato non vedo soluzioni a breve termine», chiosa Diez che identifica almeno due grandi resistenze al cambiamento. Da un parte, il sistema politico confessionale, incapace di imprimere al Paese una svolta. «L’attribuzione dei seggi su base confessionale alimenta rapporti clientelari e blocca ogni riforma nel Paese. Nelle ultime elezioni sono aumentati i partiti che hanno chiesto un superamento. Ma il tema è delicato, perché la vera sfida è superare il modello confessionale garantendo nel contempo la liberà di culto che oggi ancora esiste nel Paese». L’equilibrio confessionale viene usato dai partiti come pretesto per mantenere lo status quo, aggiunge Daccache. Dall’altra, la presenza di Hezbollah. «Che non è solo un movimento politico assolutamente legittimo e maggioritario, ma è anche una milizia armata che negli ultimi anni si è misurata in Siria e che ha maturato un’esperienza di fuoco importante sul terreno». Se un tempo Hezbollah era considerato uno Stato nello Stato, oggi sarebbe più corretto dire che è uno Stato in un non-Stato, chiosa Diez, secondo il quale la presenza della milizia rappresenta un ostacolo a ogni forma di cambiamento sociale. «Se la posizione dell’Iran diventasse meno preminente in Libano e se altri attori manifestassero maggiori interessi, forse si potrebbe raggiungere un equilibrio di forze alternativo». L’attuale fase politica a trazione iraniana, incentrata sul modello delle milizie, secondo Diez, sta portando il Paese verso uno stallo e, nella peggiore delle ipotesi, verso una morte lenta di quelle libertà, anche di culto, che il Libano ha sempre garantito. «Il timore è che tutto questo finisca. Per la cultura araba sarebbe una grandissima perdita», osserva Diez. «Ci sono alcune linee rosse che non vanno superate», gli fa eco Daccache. «Non bisogna attaccare il capo di Stato, né il capo del Governo». Per questo motivo - conclude Diez - è importante attirare l’attenzione della comunità internazionale sugli sviluppi del Paese, «affinché si generi un maggiore impegno diplomatico».