Il personaggio

Che cosa ci insegna l'addio di Tom Brady?

Lasciare il proprio lavoro non è mai facile, anche perché spesso è una questione identitaria: un americano su due, ad esempio, va in pensione «con la forza»
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Marcello Pelizzari
02.02.2023 10:52

Sì, Tom Brady ha detto basta. Davvero, questa volta. Il grande quarterback, il signore del Super Bowl, l’uomo perfetto, è uscito di scena. Il momento del sipario, insomma, è infine arrivato. Con tutte la difficoltà, emotive ma non solo, del caso.

Allargando il campo, e senza per questo scomodare le proteste in Francia sull’età della pensione o l’iter di cui è stata protagonista la Svizzera, molte persone faticano – e non poco – a salutare il proprio lavoro. Per quanto, nella maggior parte dei casi, non sia affascinante come quello svolto dal signor Brady, stella fra le stelle del football americano. Bloomberg, a tal proposito, cita una ricerca della Boston University. Secondo cui un cittadino statunitense su due va in pensione «con la forza». Ovvero, per motivi esterni alla sua volontà, come la pandemia, la necessità di prendersi cura di un parente malato o, banalmente, un licenziamento improvviso e l’impossibilità a trovare un nuovo impiego.

Eppure, probabilmente perfino Brady – quando era più giovane – non vedeva l’ora di allontanarsi dalle pressioni, dai riflettori, dalla vita frenetica di uno sportivo professionista. Perché, allora, con l’avvicinarsi della scadenza (quasi) tutti cerchiamo di allontanare sempre un po’ di più il citato momento del sipario?

Sogno al contrario

Sempre Bloomberg rivela che il 42% degli statunitensi di età superiore ai 50 anni vorrebbe continuare a lavorare dopo aver raggiunto l’età pensionabile. Chiamatelo sogno americano al contrario, visto che la scelta di proseguire è legata altresì a fattori economici. Ma c’è di più. Ed è lo stesso Brady, che un primo addio lo aveva dato tempo fa salvo rimangiarsi la parola, a suggerirlo: nonostante tutto, nonostante la routine, i dolori, la fatica e via discorrendo, lavorare è bello. Quantomeno, gratifica. Di riflesso, in pensione mancano tanti, tantissimi aspetti della vita lavorativa: stare assieme, sentirsi parte di un gruppo, avere – banalmente – uno scopo.  

Il lavoro, par di capire, è una questione di identità. In lingua inglese, fa notare ancora Bloomberg, per indicare la professione praticata si dice «sono un insegnante» o, ancora, «sono un avvocato» e via discorrendo. Essere, già. Per questo, a maggior ragione per Brady, vincitore di ben 7 Super Bowl, separare il lavoro dalla persona può essere complicato.

Il limite

A spingere gli atleti, poi, spesso è l’insoddisfazione. Il cosiddetto limite da spostare un po’ più in là. Dare tutto, appunto. A discapito dei rapporti con la famiglia, ad esempio.

Brady non era solo un giocatore di football. Era il football, nella misura in cui la sua vita è stata – irrimediabilmente, per certi versi – segnata da quando, ad appena quattro anni, nel 1981, vide una partita fra i San Francisco 49ers e i Dallas Cowboys. Il costo per trasformare il sogno di un bimbo in un mestiere, per forza di cose, è stato alto. Come alto è stato l’investimento. E quindi, di nuovo, riproponiamo la domanda delle domande: è possibile, ora, per queste persone avere una vita al di fuori del lavoro? Essere persone, anche, al di fuori del lavoro?

Gli anelli

Per molti sportivi, nello specifico, a mancare sono soprattutto le emozioni della partita, dell’evento, della sfida. Niente, per Brady, sarà più paragonabile a un Super Bowl. Avere capito di dover dire basta, però, può essere un (nuovo) modo per continuare a vincere. Su un altro campo, quello della vita vera. Lontano dagli schemi, dalle vittorie, con «solo» 7 anelli alle dita a ricordare che un tempo eri il più forte quarterback nella storia del football.

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